A cosa porta una psicoterapia?

“… e presto fu tardi nella mia vita” dice Marguerite Duras in uno dei suoi romanzi. Pare essere questa la sensazione comune di chi arrivato a un punto cruciale della propria esperienza di vita chiede aiuto a quella forma di cura che il Novecento ha scoperto al capezzale del sofferente: la psicanalisi. Alcuni eventi hanno assunto nella vita del soggetto il valore di trauma. Non sempre si tratta di situazioni che il senso comune potrebbe agilmente definire come tali, bensì di accadimenti che non sembrano scostarsi grandemente dalla quotidianità. Basta ricordare il caso celebre di Anna O. colpita dall’immagine della governante a lei antipatica che fa bere il cane da un bicchiere. Questa scena in sé non particolarmente “forte” pare essere all’origine del sua successiva difficoltà ad alimentarsi e soprattutto a bere; sintomo che insieme ad altri malesseri la porteranno a chiedere aiuto. Il suo tempo sembra essersi fermato là, davanti a quell’immagine che seppur inconsueta non sembrerebbe avere in sé nulla che possa dirsi appunto traumatico. Anna O. continuerà a tornare a quel momento, non ricordandolo ma impedendosi di bere; in questo senso il suo tempo si ferma e un periodo non breve della sua vita sarà dominato dal “ruotare” attorno all’indicibile di quel momento. Ricordiamo infatti che Anna O., per educazione, era rimasta in silenzio di fronte a quella scena per lei tanto raccapricciante. Proprio il poter dire,  durante la cura analitica, dell’orrore provato in quell’occasione pare portare alla scomparsa del sintomo. Non voglio addentrarmi nella valutazione degli esiti del caso su cui tanto si è scritto, ma porre un interrogativo circa il fatto che la scomparsa del sintomo sia il vero,  essenziale e incontrovertibile esito positivo di una cura psicologica. Vi sono infatti sintomi assai resistenti a cui i soggetti restano fissati per anni, altri che – come anni fa mi diceva un mio anziano maestro –  “non vanno via”, altri ancora che “se ne vanno” ma per lasciare il posto a maggiori sofferenze; è sovente il caso delle giovani oggi colpite dai cosiddetti disturbi alimentari che “guarite” da questi precipitano in profonde depressioni. In breve, a volte il sintomo è come l’aria inquinata e malsana che il paziente respira, ma pur sempre di aria si tratta e guai a privarlo di ciò che per lui è comunque vitale. Il buon esito pare dunque non essere così eclatante, certamente distante da una guarigione miracolosa, probabilmente più attinente al rendere il paziente avvertito della presenza dell’inconscio che lo pungola e capace di negoziare con lui dandogli parola.

Marco Farina

Psicoterapeuta

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