Dall’Eneide a Cappuccetto Rosso, un monologo esilarante che riscrive la storia con leggerezza e intelligenza
Chi l’ha detto che l’epica non può far ridere? Con il suo nuovo monologo, Paolo Cevoli prende il mito fondativo per eccellenza, quello di Enea e dell’Eneide, e lo trasforma in una travolgente riflessione comica sull’identità italiana. Il risultato è uno spettacolo che unisce storia, letteratura, attualità e porchetta — sì, anche la porchetta.
Un eroe sconfitto… ma con stile
Cevoli ci racconta Enea non come un eroe invincibile, ma come un tipo tosto e resiliente che, dopo la disfatta di Troia, si carica sulle spalle il padre Anchise, prende per mano il figlio Ascanio, e si porta dietro le divinità di famiglia in formato tascabile. Un profugo ante litteram che parte per un viaggio fatto di speranza, radici e focacce, tra naufragi, amori complicati e segni profetici sotto forma di scrofe lattanti.
E se l’Eneide fosse una saga familiare?
Con il suo stile inconfondibile, Cevoli affianca Enea a personaggi insospettabili: Cristoforo Colombo, Cappuccetto Rosso, il principe vichingo Ragnar e soprattutto Luciano, suo babbo emigrato in Australia negli anni ’50. Tutti viaggiatori in cerca di fortuna, tutti protagonisti — in modo serio o grottesco — di epiche quotidiane. È qui che la mitologia si fonde con il vissuto, e la classicità diventa occasione per interrogarsi su cosa significhi davvero “essere italiani”.
Panini alla porchetta e identità nazionale
Il culmine del racconto? L’arrivo di Enea sulle sponde del Tevere. Una scrofa allatta i suoi cuccioli (segno divino, pare), gli esuli si fermano, le donne preparano focacce, e gli eroi… cucinano la scrofa. Nasce così la leggenda della fondazione di Roma: con un picnic a base di panini alla porchetta. Un’iperbole gustosa che racchiude in sé tutta l’ironia graffiante di Cevoli.
Meglio figli di Troia che figli di nessuno
Dietro la comicità, però, c’è l’intuizione storica: come Virgilio scrisse l’Eneide per dare ai Romani un’origine nobile (e mitica), così Cevoli racconta che, a livello identitario, “è meglio essere figli di Troia che figli di nessuno”. Una battuta, certo, ma anche una dichiarazione d’amore verso le proprie origini, la propria cultura, e quel popolo italiano che ancora oggi cerca un senso profondo al proprio “viaggio”.
