E la chiamano estate, amore di silenzi

“Nel bene o nel male, purché se ne parli”. Così parafrasa un brano de “Il ritratto di Dorian Gray” di Oscar Wilde e a giudicare dalla bagarre scoppiata al Festival del cinema di Roma dopo la visione di “E la chiamano estate”, titolo che ricalca l’omonima canzone di Bruno Martino del 1965, sembrerebbe proprio che il regista Paolo Franchi si sia ispirato a questa celebre citazione.

O forse no, si è semplicemente lasciato guidare dal sacro fuoco dell’arte, cercando e sperimentando nuove strade anticonformiste per sfuggire all’appiattimento creato dalla tv (come lui stesso ha dichiarato) e poco importa se il film non arriva a tutti per il suo linguaggio un po’ troppo ermetico. Questi tutti sono coloro che all’anteprima hanno fischiato e deriso con risa e fischi la pellicola in concorso, mentre la giuria, formata dai temerari Valentina Cervi e P.J.Hogan tra gli altri, ha premiato il regista e Isabella Ferrari come miglior attrice di un film coraggioso che non pretende il consenso a ogni costo. A tale avventura ha partecipato, per la prima volta, anche Nicoletta Mantovani in veste di produttrice per “Pavarotti International”, la cui figlia, Alice, ha recitato una piccola parte.

Ciò che colpisce, che fa arrabbiare, che desta stupore e che scandalizza non sono tanto le scene di sesso più o meno hard nei club per scambisti o quelle con prostitute e trans, che costituiscono buona parte del film, quanto piuttosto il paradosso di una storia d’amore considerata speciale, unica, irraggiungibile, ma basata sulle menzogne del protagonista, Dino, stimato anestesista, interpretato da Jean-Marc Barr, che non riesce a far l’amore con la persona che ama, sfogando, così, le sue pulsioni con donne a pagamento o mogli altrui, con tanto di complicità dei mariti, come il bel Filippo Nigro.

Difficile per il pubblico femminile non risentirsi di fronte a una donna come Anna (Isabella Ferrari) che, nonostante scopra le “porcherie” – da lei così definite davanti allo psicanalista – del marito, continua ad amarlo e a sentirsi amata proprio in virtù della disperazione del suo uomo. Altrettanto assurdi sono poi i tentativi di convincimento di Dino agli ex di sua moglie (tra cui spicca Luca Argentero) per farli riavvicinare a lei, o le suppliche direttamente a Anna, mentre lo accarezza, di farsi un amante. Lei, paradossalmente, non si scompone nè scandalizza. Ma risponde: “Io voglio solo te, se chiudo gli occhi non vedo che te”.

Per dare maggior risalto al tormento vissuto dal protagonista, Franchi ha utilizzato alcuni artifici stilistici che rivelano lo sforzo innovativo che percorre l’intera pellicola: le scene che ritraggono i due innamorati nella loro casa, dove predomina il bianco, sono volutamente offuscate, quasi a voler sottolineare un senso d’irrealtà ed esclusività che sottende la loro storia. Inoltre l’intera vicenda non segue un lineare sviluppo cronologico, ma il tempo appare dilatato e circolare alla maniera di Bergson, come spiega il regista, e la lettera d’addio di Dino, prima dell’estremo gesto,  letta e riletta a più riprese quasi fosse una sorta di refrain, ne è un chiaro esempio così come le fotografie che ritraggono istanti della vita dei due personaggi principali descritte e commentate da voci fuoricampo.

È un cinema d’autore  quello di Franchi, che piaccia oppure no, e come tale è provocatorio, irriverente, scomodo, ma se non altro scuote gli animi e le menti.

 

(di Giulia Bellini)

 

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