Diana Vreeland in diario

Appassionata, audace, stravagante, rivoluzionaria. Così, e anche di più, era Diana Vreeland, la donna che ha impresso un timbro a fuoco alla moda degli anni Sessanta. Nelle memorie raccolte nell’autobiografia, edita da Donzelli, Diana racconta la sua vita umana e professionale.

Nata a Parigi, ma trasferitasi presto a New York, sposò lì l’uomo della sua vita, il banchiere Thomas Reed Vreeland, il quale la supportò nell’apertura di un suo negozio di lingerie. “Non avevo mai pensato di lavorare – scrive – l’unica cosa che sapevo era dove andare a farmi confezionare i vestiti, così entrare nel mondo della moda mi sembrò la cosa più naturale che potessi fare”. Da un giorno all’altro si trovo a scrivere su Harper’s Bazaar con la folle rubrica “Why don’t you”, da lei stessa ideata nel 1936. Ai lettori, Diana dispensava consigli pratici, accostati a idee strampalate, il tutto cucito con ingegno. Dopo 26 anni e una nomina a direttrice mancata, Diana passa al timone di Vogue e ci resta fino al 1971.

È lì che inizia la sua leggenda. È lì che dà il meglio di sé. Fonte inesauribile di idee, Diana Vreeland era un uragano vivente. Irrompeva dentro e fuori dagli uffici trascinandosi dietro cappelli, borsette, segretari e fotografi. Lei stessa applicava il trucco e tagliava i capelli alle modelle. Fino a quel momento erano gli stilisti della Haute Couture a dettare le mode raffigurate nelle riviste. I giornali si limitavano a scegliere e a presentare gli abiti. Diana Vreeland cambiò tutto. Era lei a creare l’abbigliamento, era lei a inventare la moda secondo i suoi sogni. Trasformò Vogue in una rivista visionaria, stravagante, eccentrica, spesso lontana dalle donne reali che dovevano portare abiti indossabili. Se il suo sogno per l’autunno era Veruschka nei panni della regina Cristina, allora si creava un guardaroba per la regina Cristina.

Diana amava gli eccessi e possedeva un entusiasmo incontenibile, celebrò l’avvento della minigonna e definì il bikini come “l’evento più importante dallo scoppio della bomba atomica”. La sua eccentricità non conosceva limiti: durante i servizi fotografici, il suo staff sapeva esattamente cosa trovare e se non era possibile allora si fingeva. A Diana piaceva la finzione. La sua stessa vita, del resto, era in bilico tra realtà e finzione. Credeva appassionatamente nella moda come spettacolo e sceglieva le ambientazioni in stile Hollywood. Fu lei a decretare il termine dell’era delle modelle aristocratiche e curvilinee e a lanciare la sedicenne Twiggy e la diciassettenne Penelope Tree, dal look longilineo, per non dire decisamente sottopeso, come nuove icone di bellezza.
Gli anni Sessanta ruotarono attorno ai suoi capricci e al suo vocabolario che contemplava unicamente parole come “straordinario”, “divino” e “spettacolare”.

Nel 1971, la Vreeland aveva quasi settant’anni
, il mondo stava cambiando e nessuno poteva più soddisfare i suoi costosi capricci. Il suo stile visionario e futuristico era di colpo diventato vecchio. I vestiti eccentrici e gli accostamenti esotici smisero di sembrare affascinanti, il suo stile bizzarro non era più contemporaneo. Vogue doveva cambiare, assieme alle donne e al loro nuovo modo di percepirsi. Diana Vreeland viene così licenziata brutalmente, da un giorno all’altro.

La sua fine a Vogue fu l’inizio di una carriera come consulente per il Costume Institute del Metropolitan Museum of Art, per il quale ha curato mostre indimenticabili fino al 1989, anno della sua scomparsa.

Con questa autobiografia, Diana Vreeland racconta con straordinaria verve e bruciante ironia la sua esistenza, vissuta sporcando sempre la realtà con la sua immaginazione e finzione. Una donna che ha sempre saputo reinventare se stessa, carismatica, geniale e rivoluzionaria. Infrangeva le regole e tutto il mondo le andava dietro. Il suo stile era audace, e audaci furono gli stessi anni Sessanta.

 

D. V.
di Diana Vreeland
ed. Donzelli, 2012
206 pp., 18 euro

 

(di Alice Rosati)

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