Paolo Zambaldi, l’artigiano della fotografia

Fotografare: dare vita al proprio mondo interiore. E’ questa l’idea del celebre fotografo Paolo Zambaldi, che in pausa dal set del suo attuale lavoro racconta in seclusiva a Giltmagazine come passione, voglia di imparare e soprattutto il desiderio di lavorare per se stessi e non per la sola fama, possano portare lontano nel suo mondo. Ecco dunque come chi lavora con il cuore riesce a far capire cosa davvero sia amare il proprio lavoro.  “Il mio approccio è da artigiano, quindi tutta la parte di ego, premi e pubblicazioni, non mi interessa più; come se all’inizio fossero stato il motore che mi spingeva a fare i primi sforzi, con il tempo invece, ti accorgi che questo è un lavoro che ti mette davvero a dura prova. Se lo fai da più di dieci anni, hai già avuto occasione di cadere e risalire più volte, e questo fa sì che se tu continui a identificarti con la tua sola proiezione personale del successo, arrivano le carezze, ma le carezze non te le godi mai quanto senti le sberle ed è in quel momento che cambi approccio e capendo che certe cose le puoi raggiungere, non ti hanno poi cosi tanto appagato.”

Cosa le ha dato maggiore soddisfazione nel suo mestiere?

Quando ero sul set ho potuto fare quello che avevo in mente: quando vedi trenta persone per la fotografia, e fino a cento nel cinema, che lavorano tutti intorno a una tua idea, beh questo è cosi bello, è emozionante, nel senso che ti viene quasi voglia di abbracciarli tutti, sono lì proprio a sostenerti. E nel cinema si sente ancora di più, il livello di professionalità è ancora più alto. Ho fatto tutto nel mio mestiere abbastanza lentamente, con pazienza, ho iniziato con una certa tranquillità, anche se ho avuto la chance di fare progetti importanti, sull’America. Poi è stato come se lo sentissi come uno sviluppo naturale, anche perché il cinema è sempre stato la mia ispirazione nella fotografia. Il mondo pubblicitario poi era estremamente duale: una parte creativa e appagante, l’altra parte, puramente réclame, la trovo un po’ svilente se si ha veramente voglia di dire qualcosa che non sia puro mezzo tecnico. Io non ero pronto per fermarmi alla soluzione tecnica, volevo assolutamente perseguire l’altra, anche se non ho velleità d’artista e ho orrore di quei fotografi che si presentano come artisti. Ritengo che sia un lavoro da artigiano, questo per dire che l’arte arriva, ma in un secondo momento, prima c’è il rapporto con la fotografia, con la regia, con l’idea, è un passaggio quasi artigianale.

Quali sono stati i suoi esordi nel mondo della fotografia?

Ho iniziato prima facendo l’assistente, avevo diciott’ anni e ho avuto la fortuna di assistere due grandissimi fotografi, sono andato prima a Montecarlo. Mi spostavo da lì a Parigi e Miami, poi con l’altro New York e Parigi e sono passati così sei anni. Nel frattempo mi sono laureato in psicologia.

Di cosa si occupavano questi fotografi?

Moda e ritratti, erano due dei geni della fotografia. Dopo questa esperienza ho fatto un po’ l’assistente e un po’ il fotografo. Era necessario fare tutto il praticantato, era importante conoscere la luce, tutta la parte tecnica era da sapere, adesso, con il digitale, è come se tutti potessero diventare fotografi. Una cosa che però non si impara e tutti fanno finta di non aver bisogno di impararla, errore che poi il lavoro ti fa sentire, è la professionalità. È una cosa che si dovrebbe imparare facendo l’assistente prima di fare il fotografo. Si è così tanto ridotto il livello di praticantato in questo momento che c’è ben poca professionalità rispetto agli anni scorsi. C’è in questo momento un enorme involuzione della fotografia e anche del lavoro del fotografo.

Da quanto tempo lavora nel cinema?

Non ho mai visto così tanta gente che vuol fare il fotografo. Ho provato a dare chance a qualche ragazzo, tra l’Italia e l’America ricevo molti contatti da parte di persone vogliono iniziare ad assistere, ma la maggior parte delle volte ti rendi conto che non c’è nessuna volontà reale, c’è un sogno enorme, ma la volontà di lavorare non c’è. Una volta eri obbligato a imparare, adesso con il mezzo tecnico immediato tutto si è uniformato, ci son poche visioni personali. È un po’ come ciò che sta succedendo nelle vie delle nostre città. Vediamo marchi uguali ovunque al posto delle botteghe stupende, degli artigiani che facevano cose meravigliose. Nel cinema non è ancora così, questo fenomeno arriverà anche lì, ma ancora è necessario saper comunicare con molte persone, mettere insieme un’infinità di cose, è necessario avere delle basi.

Quando ha iniziato la sua carriera si è ispirato ai fotografi che ha seguito?

No, erano troppo grandi. Anzi all’inizio ho anche atteso a tentare la strada del fotografo, era come se dicessi: ci sono già loro, perché ne devo mettere al mondo un altro. Ho continuato a fare l’assistente, giravo il mondo ed ero felice di quello che facevo. Non lo sentivo necessario fare solo il fotografo. Poi invece la vita mi ci ha messo davanti, ho avuto la fortuna di incontrare un grandissimo stylist che era il fashion editor di un giornale importante, aveva l’intelligenza e il gusto di provare anche persone che non avessero un nome conosciuto; mi ha dato spazio. Un altro grande personaggio della pubblicità ha visto il mio portfolio, non avevo una pubblicità, ma ha voluto darmi una chance senza che ci fosse nessuna spinta, nessuna progettazione. È stato soltanto il mio lavoro che mi ha portato avanti. Poi ho incontrato un grande agente in Francia, Michele Filomeno, e Franca Sozzani che mi ha lasciato immediatamente la possibilità di lavorare su Vogue Italia. Al tempo un fotografo che faceva Vogue Italia ancora cambiava la sua carriera, adesso no.

C’è qualcosa che vorrebbe fotografare e non ha ancora fotografato?

Il mio processo creativo non parte dall’osservazione di quello che c’è fuori di me, è un mondo cheassolutamente mi creo nella mia mente e poi cerco un’infinità di collaboratori o di realtà che assomiglino a quello che ho immaginato. È un processo inverso, infatti non giro mai con una macchina fotografica. Non ho un rapporto feticista con la macchina, anche se ne posseggo di vecchie, però non vedo attraverso la macchina, immagino, chiudo gli occhi. Quando mi viene in mente un’idea chiamo la mia storybordista, disegnamo uno storybord.

E come le viene in mente l’idea?

Faccio molta ricerca, ma che non ha mai a che fare con la fotografia, ha a che fare con arte, cinema, letteratura e quindi è una continua ricerca personale. Mi viene in mente una storia da raccontare, un’attrice e un attore che la interpretino, o una modella, e poi grazie alla mia storybordista ne ottengo il disegno, poi parlo con lo scouter location, il mio scenografo, la produzione che organizza tutta questa gente. Si arriva a quasi una trentina di persone sul set se costruisci come faccio io, nel senso che se devo fare la foto di una persona davanti a una finestra, io costruisco la finestra come ce l’ho bisogno. Però è un mondo un po’ più onirico, anche se sono in una location reale, devo portare una quantità di luci tale da ricreare l’ambiente che ho in mente io, non quello che trovo lì. È come se in qualche modo adattassi tutto quello che trovo fuori a quello che è nella mia mente. È un processo creativo diverso: c’è chi osservando delle cose le rube, le fotografa al momento, usa quella realtà, mentre io non trovo interesse a fotografare quello che già c’è.

Si parla spesso del “genio italiano”. E della fuga di cervelli costretti a “emigrare” all’estero. Lei cosa ne pensa?

Io non credo esista nessuna genialità da parte degli italiani all’estero. Ho lavorato con artisti e con fotografi, registi, attori che sono riconosciuti come geni assoluti, non ho mai trovato dei geni, ho sempre trovato gente che lavora sodo. Brecht lo dice, io adoro Brecht, diceva “non esiste il genio esiste solo il lavoro duro”, e ora come non mai credo che in questo momento questo sia il messaggio. Ho fatto un film di 15 minuti per Eros Ramazzotti due anni fa, che ha seguito tutta la promozione del suo disco “alle radici”, aveva chiamato tutta una serie di amici famosi a parlare di lui e lui arrivava a dire qualcosa solo alla fine. E’ stato poco autocelebrativo, è stato un passaggio attraverso il suo mondo e la sua visione e alla fine ha detto una cosa molto bella che era il messaggio che voleva dare ai giovani e ai suoi fan: “se hai voglia di fare qualcosa è inutile che ci sogni troppo su, falla e basta, e non per diventare famoso, falla per te”. Ecco, art directors, registi, fotografi, questo è il genere di lavori che ora sta muovendo così tanto i sogni. Me ne accorgo da tutti questi ragazzi che vogliono intraprendere questa strada e che si immaginano un mondo di sole paillettes, di divertimento e di leggerezza, non è cosi. È un lavoro durissimo che diventa sempre più difficile, spesso assolutamente ingiusto. Gente che arriva a grandi livelli non è detto che li meriti, gente che non arriva invece, meriterebbe molto di più. Ad ogni modo, anche se hai i tuoi meriti, le cadute le proverai ugualmente e saranno sempre ingiuste o anche troppo giuste, ma tu non sarai mai pronto a viverle. L’unica cosa che ti salva in tutto questo è la passione. È un lavoro di grandi sacrifici, perché girare per il mondo non vuol dire divertirsi, vuol dire innanzitutto essere in grado di reggere certi ritmi, di reggere le richieste delle persone intorno a te. Non puoi prendere nessuno sottogamba perché tutti si aspettano il meglio da te e se stai viaggiando in giro per il mondo è terribilmente faticoso farlo. Quindi chi si immagina sesso, droga e rock and roll, non è più cosi, anzi cosi è la vita personale, è molto difficile avere una relazione, una famiglia, è una vita che comunque richiede una profonda dedizione. Più che di genialità all’estero quindi, parlerei di voglia di “sgobbare” in giro per il mondo.

E dunque secondo lei perché gli italiani preferiscono “sgobbare” all’estero?

A dir la verità non ne trovo poi così tanti, la maggior parte nel nostro ambiente che dice di vivere all’estero si fa delle pause di vacanza, poi torna qui e guadagna qui. La maggior parte di loro si muove all’estero per poter dire in Italia di lavorare all’estero, ma in realtà non lo fa. Perché? perché l’Italia è estremamente esterofila quindi non valorizza niente che c’è all’interno. Noi, in questo momento, abbiamo registi bravissimi che non hanno la possibilità di lavorare su un film che avrebbe bisogno di settimane di lavorazione perché al loro posto vengono chiamati dei registi dall’estero con la metà delle loro possibilità, che vengono qua, preparano un film in un giorno e mezzo, girano delle cose orribili, ma danno la possibilità di nascondere spesso l’incapacità dell’art director o l’inadempienza dell’agente di pubblicità vis à vis col cliente dietro a un nome conosciuto, un nome famoso o un nome straniero, tante volte neanche famoso. E quindi in Italia, nella fotografia, e ancor più nella moda, si è voluto trasferire tutte le scelte più importanti, gli shooting più importanti, all’estero e così abbiamo pagato e paghiamo tutt’ora un’esterofilia incredibile. La maggior parte degli italiani nel nostro mondo che dicono di vivere all’estero in realtà si fanno una settimana al mese per farsi un filo di break, ci provano, ma alla fine ritornano in Italia per poter dire che vivono all’estero. All’estero non si vive così bene o così meglio rispetto all’Italia anzi, qui quando si arriva a fare due o tre cose, immediatamente ci si crea il proprio piccolo giardino dell’eden in cui credi di essere grande, arrivato. All’estero trovi sempre qualcuno che è migliore di te, quindi smetti anche di essere in competizione. Io ricordo che quando sono entrato nella mia prima agenzia, il primo fotografo che ho visto era Peter Lindbergh, quindi se iniziassimo a fare competizione l’uno contro l’altro potremmo spararci nel giro di due giorni. Di conseguenza diventa tutto più rilassato in termini di atmosfere lavorative e ne deriva più correttezza. Questa è l’unica vera differenza che c’è tra l’Italia e l’estero.

Tornando a lei, qual è il lavoro che le è piaciuto di più fare?

Ce ne sono davvero tanti perché io adoro il momento in cui sto sul set. Non faccio questo lavoro per la gloria, o per i pubblicati, non compro mai i giornali che faccio, non mi interessa. Se un grande giornale mi chiama per fare un editoriale, io sono solo interessato ai mezzi che mi sta dando, non alla gloria che può darmi. Voglio solo dei grandi mezzi per poter realizzare quello che ho in mente. Quindi, quando sono sul set per me è il momento di più grande piacere. Ne ho avuti tantissimi, uno dei ricordi più belli a titolo personale, è stato uno shoot con Dennis Hof, perché poi è diventato un amico, una persona importante. È stato uno dei più grandi artisti che io abbia mai incontrato, artisti nel vero senso della parola, cioè di coloro che non si proclamano artisti, ma che mossi dal loro interesse, dalla loro ricerca, producono cose belle e interessanti, personali, senza copiare. Davvero una grande persona. Quell’incontro è stato così magico che lo ricordo spesso, però ne ho davvero tanti.
Da questo punto di vista mi sveglio la mattina e sono veramente grato, sono stato molto fortunato perché faccio ciò che amo, quindi ho una profonda gratitudine tutti i giorni.

Per vedere come Paolo Zambaldi dà vita a ciò che ha nella sua mente è possibile visitare il suo sito:
www.paolozambaldi.com

Elena Oppedisano

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