Portobello: Bellocchio e l’incubo televisivo di un Paese

Una miniserie che rilegge la vicenda di Enzo Tortora trasformandola in un dramma universale sul potere, la giustizia e la fragilità dell’immagine pubblica

a cura della Redazione

ph: Anna Camerlingo

Con Portobello, Marco Bellocchio affronta una delle pagine più controverse della storia italiana recente e la restituisce con la forza di un incubo lucido. Nei primi episodi presentati a Venezia, il racconto della vicenda di Enzo Tortora si allontana dai confini del semplice fatto di cronaca per farsi allegoria, riflessione sull’ingiustizia e sul ruolo perverso dei media.

Il cuore della serie è un procedurale che non cerca mai il ritmo rassicurante del true crime: piuttosto, si muove in un territorio dove la giustizia diventa labirinto e la televisione, con i suoi riti e le sue maschere, assume la funzione di un altare laico su cui sacrificare un uomo. L’uso dei simboli – dal Pulcinella che invade le visioni oniriche, fino all’ossessione per l’immagine televisiva – restituisce allo spettatore il senso di una tragedia collettiva, che supera la singola vicenda per abbracciare un’intera epoca.

ph: Anna Camerlingo

L’interpretazione di Fabrizio Gifuni è intensa, misurata, capace di restituire la dignità di un uomo che, travolto dal clamore, resta intrappolato nella gabbia del proprio ruolo pubblico. Accanto a lui, un coro di personaggi scolpiti con precisione, figure che oscillano tra il grottesco e il realistico, a testimonianza di come la macchina del potere possa deformare la realtà fino a renderla irriconoscibile.

Bellocchio non indulge mai nella commiserazione né nella retorica: il suo sguardo è spietato, quasi clinico, e proprio per questo profondamente umano. La serie, pur ambientata negli anni Ottanta, parla in modo diretto al presente, mostrando come l’opinione pubblica e i meccanismi mediatici siano ancora oggi capaci di costruire e distruggere destini con la stessa ferocia.

Portobello non è un racconto consolatorio, né intende offrire una facile catarsi. È un’opera severa, necessaria, che costringe a interrogarsi sul confine sottile tra spettacolo e verità, tra giustizia e spettacolarizzazione. Un lavoro che conferma Bellocchio come maestro capace di trasformare la storia italiana in un prisma di domande universali, e che segna uno dei momenti più alti della serialità europea contemporanea.

ph: Anna Camerlingo

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