Giuseppina Torregrossa – “Scavo nell’animo dei miei personaggi”

 

Nata a Palermo e madre di tre figli, Giuseppina Torregrossa vive tra la Sicilia e Roma. Laureata in medicina e dottore di ricerca in perinatologia, è una scrittrice dal tocco raffinato e sensuale. Nel 2007 esce il suo primo romanzo, L’assaggiatrice, per gli editori Rubbettino. Con il monologo teatrale Adele (Borgia Editore) vince nel 2008 il premio “Donne e teatro”. Il 2009 è l’anno di partenza della fortunata collaborazione con Mondadori. Con la nota casa editrice milanese pubblica Il conto delle minne (2009), Manna, miele, ferro e fuoco (2011) e Panza e prisenza (2012). Protagoniste dei suoi romanzi sono sempre le donne: avvenenti e intelligenti, alcune colte e ben inserite nel mondo del lavoro, donne comuni ma dotate di grande talento, ricche di fascino e di pudore, che tuttavia alla fine cedono il passo alla supremazia maschile, come se fossero vittime di quell’eterno caso per cui “il volere degli uomini è destino”. Donne in cui la stessa autrice di ritrova: “Io sono tutti i miei personaggi”, racconta a Giltmagazine.

Giuseppina Torregrossa, lei è medico, scrittrice di buona fortuna e madre di tre figli. Come ha saputo conciliare questi diversi aspetti della vita?
Un colpo di fortuna! La scrittura è stata a lungo sacrificata nei periodi di intenso lavoro e di crescita dei figli, ma poi le cose cambiano e gli spazi prima risicati si dilatano.

Lei era ginecologa. Ha smesso perché ha capito che voleva fare la scrittrice?
No, per motivi di salute.

Da quando lo fa?
Ho sempre scritto, fin da quando ero bambina. Nel 2007 ho pubblicato il mio primo libro e così gli altri hanno potuto leggermi.

C’è qualcosa in comune tra il medico e lo scrittore?
Credo di sì; c’è l’obbligo per il medico di approfondire la conoscenza del paziente, la necessità per lo scrittore di scavare nell’animo dei personaggi.

Fare la ginecologa l’ha aiutata a conoscere meglio le donne?
Non lo so. Mi ha permesso però di conoscere lo stretto legame che c’è tra anima e corpo, certamente gli studi di medicina sono stati preziosi.

Nei suoi romanzi la donna e il suo corpo sono i protagonisti di una lotta verso l’emancipazione, gridata sulla carta, ma in realtà ancora arrancante. Pensa che i tempi siano ancora lunghi prima di poter ottenere una totale parità tra i sessi oppure in questi anni qualcosa sia cambiato?
Negli ultimi anni molte cose sono cambiate. La parità è ancora lontana, le donne ubbidiscono ancora a un freno interiore che impedisce loro di realizzare pienamente i propri talenti. E’ come se si sentissero in colpa per ogni successo. Poi c’è la questione sociale, la nostra è una società ancora maschilista.

Protagoniste dei suoi romanzi sono sempre le donne, avvenenti e intelligenti, alcune colte e ben inserite nel mondo del lavoro, che tuttavia alla fine cedono il passo alla supremazia maschile, come se fossero vittime di quell’eterno caso per cui “il volere degli uomini è destino”. Lei dall’esterno rappresenta il prototipo contrario: si riconosce nelle tue eroine? E se sì, quanto c’è di Giuseppina in Marò?
Io sono tutti i miei personaggi. Non tutte le mie donne sono avvenenti, spesso sono dotate di una bellezza ordinaria, comune. Ma il talento regala loro una grande dose di fascino… Marò è piena di fragilità, io ne ho tante ed è così vera nel mostrarle senza pudore.

I suoi libri sono intrisi di “sicilianità” e questa essenza, tra le tante, è la più forte. Lei si divide tra Roma e Palermo; nei momenti di lontananza cosa le manca della Sicilia e quale pensiero ne allevia la malinconia? E di cosa, invece, ne farebbe volentieri a meno?
La Sicilia mi manca sempre; mi manca la luce che agisce profondamente sul tono del mio umore. Farei a meno della nostra indolenza e del nostro feudalesimo, ma forse è parte integrante del fascino che la Sicilia esercita.

“Panza e Prisenza”, la sua ultima fatica letteraria, è un’opera a metà strada tra il thriller e il romanzo. In un punto del libro la protagonista si avvicina alla soluzione del caso attraverso due piccole tracce: i romanzi Una storia semplice di Leonardo Sciascia e L’incostante di Marie de Régnier. Che valore hanno per lei questi due romanzi e, al di là di Panza e Prisenza, cosa le hanno insegnato?
Per quanto riguarda Sciascia in generale, credo che sia stato l’interprete più lucido della nostra realtà, l’intellettuale più interessante del nostro secolo insieme a Pasolini. Anche una storia breve è costruita come un giallo, ma serve a raccontare ben altro. L’incostante è solo una citazione. L’autrice è stata l’amante di D’annunzio una donna ambivalente, voluttuosa e forse anche altro. Mi serviva per introdurre un’atmosfera morbosa nel mio romanzo.

La cucina è un godimento fisico, un atto di amore. Le fasi di preparazione di una portata succulenta ricordano i preliminari dell’amore fisico. Ci suggerisce una ricetta con la quale conquistare i nostri lettori e, perché no, i nostri amori in queste freddi notti invernali?
Credo che ognuno di noi abbia la propria ricetta, legata agli ingredienti del posto in cui si è nati, e alla tradizione familiare. A me piacciono le gelatine, quella di cannella che si prepara nel siracusano, il profumo intenso è un invito all’amore. E quella di anguria che noi chiamiamo gelo di mellone, per il colore rosso intenso, la consistenza tremula che è un richiamo irresistibile per la carne. Quella di caffè amaro, per quel marrone scuro che suggerisce torbide fantasie…

Nei suoi romanzi spesso l’eros è associato al cibo. Che tipo di connessione esiste tra le due entità?
Si tratta di due bisogni primari dell’uomo, il cibo legato alla sopravvivenza dell’organismo, il sesso a quella della specie. Poi intervengono i fattori culturali e ognuno di noi trova le connessioni che più gli aggradano

Se la sua scrittura fosse un piatto, cosa sarebbe?
Una caponata di melanzane.

Ci sarà un nuovo caso per Marò? Possiamo sperare in un “sequel” di Panza e Prisenza?
Sì, ci sarà.

 

 

(di Rosa Gioffré)

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