Andrea Aprea: la tavola come luogo di bellezza e memoria

Andrea Aprea trasforma ogni piatto in un racconto di memoria, gusto e bellezza, in un'esperienza che va oltre la cucina

di Angelica Malaguti

Chef napoletano di fama internazionale, Andrea Aprea ha ridefinito il concetto di alta cucina in Italia, portando avanti una visione capace di fondere memoria e innovazione. Dopo aver ottenuto due stelle Michelin al VUN Andrea Aprea  di Milano, nel 2022 ha aperto il suo ristorante all’interno della Fondazione Luigi Rovati, nel cuore di Porta Venezia. Un progetto raffinato, dove la cucina dialoga con l’arte e la cultura, dando vita a un’esperienza sensoriale unica. Nei suoi piatti convivono tecnica ed emozione, passato e presente, in un equilibrio fatto di ricordi e sperimentazione. In questa intervista racconta come nasce la sua cucina, il ruolo centrale della memoria e la sfida quotidiana dell’eccellenza.

La memoria è un ingrediente fondamentale nella tua cucina. Qual è il primo sapore d’infanzia che ti viene in mente e che ancora oggi ti ispira?

Senza dubbio il pomodoro. È un ingrediente che ritorna spesso nelle mie preparazioni, ma per me ha un significato speciale. Fa parte della mia infanzia, è legato ai ricordi più autentici della mia terra, e non a caso è anche uno degli elementi centrali del menù “Partenope”.

Il tuo ristorante unisce gusto, arte e cultura. Che tipo di esperienza vuoi offrire a chi entra per la prima volta?

Lavorare all’interno di una fondazione che unisce arte e cultura è una fortuna. Ma per me il fulcro resta sempre la tavola. L’ambiente è il servizio  sono di fondamentale importanza, certo è che il cuore dell’esperienza è quello che accade nel piatto. È lì che si gioca tutto.

Cos’è per te la contemporaneità in cucina?

Per me è uno sguardo sul presente, che parte dal passato ma guarda avanti. Nei miei tre menù – “Contemporaneità”, “Partenope” e “Signature” – cerco di raccontare diverse prospettive. “Contemporaneità” interpreta il qui e ora, “Partenope” è un omaggio alle mie radici campane, mentre “Signature” raccoglie i piatti che sono diventati parte del mio percorso. È un modo per rappresentare, ogni volta, chi sono oggi.

Come nasce la costruzione di un menù degustazione?

Ogni percorso ha una sua identità ben definita. “Contemporaneità” ruota intorno all’idea di attualità gastronomica, “Partenope” è un viaggio nella tradizione della mia terra, e “Signature” raccoglie le preparazioni più rappresentative del mio stile. Tre visioni diverse che si completano e si arricchiscono a vicenda.

Il dialogo con la Fondazione Rovati è stato fondamentale per la nascita del tuo ristorante. In che modo l’arte ha influenzato il progetto?

Credo che la cucina sia una forma d’arte ma effimera: un piatto nasce e viene consumato, a differenza di un’opera visiva che resta. Condividere lo spazio con opere permanenti rende il nostro lavoro ancora più stimolante. Abbiamo voluto creare un legame concreto tra il ristorante e la fondazione attraverso il bucchero, una ceramica etrusca. Due pareti del ristorante sono fatte con questo materiale, e per me rappresentano il trait d’union tra l’ambiente in cui cucino e quello che mi circonda.

 Dopo il successo del bistrot, stai pensando a nuove aperture o a progetti futuri?

In questo momento sono molto soddisfatto di quello che stiamo facendo. Non amo parlare troppo presto dei progetti in cantiere, anche per un po’ di sana scaramanzia partenopea. Quando sarà il momento, li condividerò volentieri.

Cosa significa oggi essere uno chef italiano in un panorama sempre più globale e competitivo?

Vuol dire mettersi in gioco ogni giorno e mantenere uno standard altissimo. Le aspettative sono tante, ma credo che sia l’identità personale a fare la differenza. Il fatto che molti ospiti vengano apposta da tutta Italia per cenare qui è, per me, una delle soddisfazioni più grandi.

Qual è la sfida più grande, e quella più gratificante, nel dirigere un ristorante che è anche un’esperienza culturale a tutto tondo?

L’eccellenza richiede impegno costante, ma ho la fortuna di fare un lavoro che amo. Non sono il tipo che si lamenta: se voglio fare qualcosa, cerco di farla bene. Le difficoltà fanno parte del mestiere, e anche questo è un segno di passione.

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