“Piero Pelù. Rumore dentro” non è un biopic patinato né un ritratto celebrativo da rocker in posa. È un film che invita a calarsi nel ronzio interiore — quel fischio costante, quell’acufene che costringe un artista abituato al caos del palco a fermarsi, a guardarsi dentro, a ricostruirsi. Lì, nel fluire di quel suono che non dà tregua, Pelù incontra una nuova forma di se stesso.
Il regista Francesco Fei accompagna il musicista in un road movie spirituale che attraversa spazi reali e leggendari: dai luoghi della formazione, alla sacralità della spiritualità dei sinti e dei rom, da cui Pelù trae forza. Le immagini si alternano tra materiale d’archivio, momenti di vita quotidiana e riflessioni lente — tutte immerse in una sospensione che rifiuta l’autocompiacimento.

I punti di forza del documentario emergono nella sua capacità di restituire un uomo, non un mito. Pelù parla di depressione, di isolamento, del rischio irreversibile di non poter più suonare: espone fragilità che disarmano. Eppure, non cede alla resa. Il film diventa un manifesto di solidarietà — verso chi soffre, verso chi pensa ancora che stare nel mondo significhi stare insieme, non chiudersi nei riflettori.
L’approccio è schivo: niente enfasi, niente esibizionismi. Fei si mimetizza, si affida allo sguardo delle immagini e alla verità del corpo di Pelù. Ne nasce un ritratto spiazzante, dove il ronzio dell’acufene diventa partitura invisibile, metafora di un male collettivo. Il rocker non si rialza per tornare al palco: lo fa per ripartire da un luogo più autentico, più vero.
Non mancano momenti in cui il ritmo rallenta forse oltre il necessario, dove lo spettatore rischia di sentirsi fuori scena. Ma è proprio in quella sospensione che il film trova la sua profondità: mostrare l’arte che riparte dal dolore, e il dolore che ti ricorda che restare umani è un atto di coraggio.
