The Smashing Machine: la caduta del gigante in un biopic umano e doloroso

Un ritratto umano, doloroso e necessario, che mette a nudo il prezzo che si paga per essere forti, e il vuoto che può seguire al trionfo

a cura della Redazione

Nel cuore della Mostra del Cinema di Venezia, The Smashing Machine emerge come un’opera che scuote il mito di Dwayne Johnson, trasformandolo da simbolo di forza in interprete vulnerabile. Benny Safdie conduce lo spettatore dentro la vita di Mark Kerr, leggendario combattente UFC, facendolo affrontare non solo gli avversari ma anche i demoni interiori.

Sul red carpet, Johnson mostra un fisico trasformato, meno muscoloso ma più fragile — una scelta visibile e tangibile che anticipa l’anima narrata del film. La sua interpretazione è commovente, intensa, smaschera la maschera dell’eroe e rivela un uomo in frantumi, alle prese con dipendenze e relazioni fragili. Al suo fianco, Emily Blunt offre una performance potente e profonda, capace di abitare con autenticità il ruolo della compagna dal cuore ferito ma tenace.

Safdie non indulge nell’esibizione drammatica, ma sceglie il realismo: il film sfrutta linguaggio visivo e simboli — dalla prostetica trasfigurazione fisica ai gesti quotidiani — per portarci dentro la solitudine di chi, dopo aver dominato il ring, resta intrappolato nella propria ombra. La scena della premiere, in cui il protagonista e il vero Mark Kerr si commuovono sotto una standing ovation di quindici minuti, segna una rivelazione: qui finzione e realtà convergono, e la platea diventa narrazione.

Il risultato è un biopic lontano dalla retorica del riscatto. È un ritratto umano, doloroso e necessario, che mette a nudo il prezzo che si paga per essere forti, e il vuoto che può seguire al trionfo. The Smashing Machine non solo ridefinisce l’identità di Dwayne Johnson come attore, ma riconnette lo spettatore con la fragilità che si nasconde dietro ogni leggenda.

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