Anni dopo una catastrofe climatica che ha reso la Terra inabitabile, una famiglia di ex élite industriale vive in un bunker elegante, costruito per resistere alla fine del mondo. In questo spazio chiuso e controllato si muovono sei adulti – genitori, personale di servizio e amici – concentrati nell’educazione del Figlio, un ventenne cresciuto senza mai vedere il cielo, gli alberi o altri esseri umani. Ma l’arrivo improvviso di una sopravvissuta dall’esterno, una giovane Ragazza che ha perso la propria famiglia tentando di raggiungerli, incrina l’equilibrio apparente e fa riemergere verità mai dette.
È questo lo scenario di The End, primo lungometraggio di finzione del documentarista Joshua Oppenheimer, autore di capolavori disturbanti come The Act of Killing. Il film – concepito come un musical teatrale recitato, con canzoni scritte dallo stesso Oppenheimer e musiche originali di Joshua Schmidt – affronta con toni stranianti e dolenti il tema della colpa rimossa, in particolare quella delle generazioni adulte responsabili della crisi climatica e sociale.
I personaggi – significativamente privi di nomi – incarnano un’umanità che ha scelto di sopravvivere chiudendo le porte agli altri, senza mai chiedersi davvero il prezzo di quella decisione. La Madre (una glaciale e coreografica Tilda Swinton) è una ex ballerina ossessionata dall’ordine, che usa la routine per negare la realtà esterna. Il Padre (interpretato da Michael Shannon) è un uomo che ammette a denti stretti la propria responsabilità nel disastro ambientale, ma la maschera davanti al figlio, a cui affida la stesura della propria autobiografia. Il Figlio (George MacKay), cresciuto nella bolla del rifugio, scopre la possibilità di un pensiero diverso solo attraverso l’incontro con la Ragazza (Moses Ingram), che diventa per lui una finestra sull’alterità, più che un oggetto d’amore.
A emergere è il contrasto tra chi ha rimosso il trauma per continuare a vivere indisturbato nel proprio privilegio e chi, come le nuove generazioni, è ancora in grado di porsi domande etiche e morali. La casa, l’ambiente “sicuro”, è il vero protagonista, metafora di una società che ha fatto del controllo e dell’autoconservazione l’unico obiettivo, anche a costo di perdere empatia, comunità e memoria.
Il film nasce, come ha dichiarato Oppenheimer, dall’esperienza del lockdown durante la pandemia di COVID-19, e riflette sulla deriva individualistica e claustrofobica di un mondo ossessionato dalla sicurezza, dove la salvezza diventa sinonimo di esclusione.
Con il suo stile visivo sontuoso, il tono teatrale e un uso della musica che rifiuta la melodia in favore della parola intonata, The End non è solo un film distopico, ma un’opera sul presente, che interroga lo spettatore su ciò che siamo disposti a sacrificare pur di non cambiare.