Dopo cinquantatré anni, Gabriele Lavia ritrova il suo destino shakespeariano: dal 28 ottobre al 9 novembre, il Teatro Strehler di Milano ospita il suo Re Lear, una nuova produzione del Teatro di Roma, Effimera e LAC Lugano Arte e Cultura che restituisce alla tragedia di Shakespeare la sua potenza più intima, quella della perdita. Della ragione, del potere, dell’amore. E del sé.
Il ritorno di un maestro alla sua ossessione
Nel 1972 era Edgar, giovane e inquieto nell’edizione firmata da Giorgio Strehler. Oggi, a distanza di più di mezzo secolo, Lavia torna al cuore del dramma come protagonista e regista, scegliendo di affrontare il testo come una vertigine dell’animo umano. «Il destino mi ha riportato a Re Lear, afferma, evidentemente Strehler mi ha teso questa trappola». Una frase che suona come una resa poetica: quella di un artista che accetta di perdersi dentro il suo stesso teatro.
Una tragedia delle perdite e dell’identità
Lear non è più Re, ma solo un uomo. Nudo davanti alla tempesta che lui stesso ha generato, costretto a misurarsi con l’abisso del “non essere”. Lavia trasforma la scena in un campo di battaglia mentale, dove la pioggia è interiore e i tuoni risuonano nella coscienza. È la follia come conoscenza, la sofferenza come percorso di verità, in un dialogo continuo con la grande domanda di Amleto: essere o non essere.
La regia come viaggio nella mente
«La tempesta di Lear è la tempesta della mente dell’umanità» scrive Lavia nelle sue note di regia. Tutto ruota intorno alla dissoluzione dell’identità, all’illusione del potere, al silenzio che resta dopo il grido. Con scene di Alessandro Camera, costumi di Andrea Viotti e luci di Giuseppe Filipponio, lo spettacolo trova un equilibrio tra il rigore della tragedia e la forza visionaria del pensiero. Un’esperienza che travolge attori e pubblico, fino all’urlo finale rivolto alla platea: «Siete uomini o pietre?».
Il tempo, la memoria e il teatro
Sul palco, insieme a Lavia, un grande ensemble di interpreti: da Federica Di Martino a Luca Lazzareschi, fino a Silvia Siravo e Giovanni Arezzo. Tre ore e mezza di teatro totale, dove il mito di Lear si fa specchio di ogni tempo. Perché, come ricorda Lavia, “quando non siamo più Re, non siamo che uomini”. E nel suo urlo, nel silenzio che segue, si riflette tutta la fragilità del nostro essere.
