“Mission: Impossible – Final Reckoning”: l’ultima crociata di Tom Cruise contro il digitale

Il gran finale della saga "Mission Impossible" arriva con "Final Reckoning", un titolo che promette rivelazioni, adrenalina e chiusura epica, ma che rischia di naufragare nel mare della verbosità e della confusione narrativa

a cura della Redazione

Il film, diretto ancora una volta da Christopher McQuarrie, è tanto ambizioso quanto sbilanciato: una prima ora quasi interamente dedicata a spiegazioni, ricordi e rimandi ai capitoli precedenti, seguita da una seconda parte in cui – per fortuna – l’azione torna a dominare lo schermo.

“Tutto ha portato a questo”: ma cosa, esattamente?

La frase simbolo “Tutto ha portato a questo” echeggia come un mantra nei primi 60 minuti del film, che si rivelano più simili a una riunione di briefing che a un thriller adrenalinico. L’intento è chiaro: collegare tutte le missioni precedenti di Ethan Hunt in un’unica, gigantesca cospirazione orchestrata da una potentissima intelligenza artificiale. Ma l’esecuzione lascia a desiderare: i dialoghi sono fitti e piatti, la narrazione si annoda su sé stessa, e il ritmo fatica a decollare.

Nonostante l’enfasi, la trama si rivela troppo complicata per coinvolgere davvero. Per chi non ha fresca nella mente la storia dei sei film precedenti, Final Reckoning può risultare un labirinto opaco di nomi, sigle, missioni dimenticate e minacce digitali. Il succo, però, è semplice: un’IA minaccia la pace globale e solo Ethan Hunt può fermarla. E ovviamente, per farlo, serve una missione impossibile.

Il trionfo dell’azione

Quando l’azione finalmente esplode, Mission: Impossible torna a essere quello che il pubblico ama. La sequenza subacquea nel sottomarino è un piccolo capolavoro di regia e tensione visiva: niente dialoghi, solo immagini, esplosioni e Cruise che sfida ancora una volta la fisica e il buon senso.

Anche la scena finale, girata interamente su veri aerei senza controfigure, è tecnicamente impressionante, ma non altrettanto coinvolgente sul piano narrativo. È chiaro però che qui lo spettacolo visivo non è solo un elemento di intrattenimento: è un manifesto. Tom Cruise si propone come paladino del cinema d’azione “umano”, fatto di stunt reali e fisicità estrema, contro il trionfo degli effetti digitali.

Ethan Hunt come manifesto di Cruise

L’identificazione tra Cruise e il suo alter ego Ethan Hunt raggiunge l’apice: entrambi sono visti come salvezza dell’umanità, incarnazioni di un’idea quasi messianica di dedizione, miglioramento personale e missione superiore. Se il cristianesimo parlerebbe di un “salvatore”, la dottrina di Scientology parlerebbe di un thetan, un essere con poteri potenzialmente infiniti. E questo è il messaggio sotterraneo (ma neanche troppo) del film: ogni ostacolo può essere superato, ogni limite infranto, ogni missione portata a termine.

Una fine spettacolare… ma poco chiara

Come finale di saga, Final Reckoning è visivamente potente, ma narrativamente poco coeso. A tratti sembra più interessato a raccontare Tom Cruise che Ethan Hunt, più desideroso di celebrare una figura iconica che di offrire una vera chiusura alla storia. Eppure, resta uno spettacolo tecnicamente impressionante, che dimostra cosa può ancora fare il cinema d’azione quando al centro ci sono corpi, rischi e volontà di superarsi.

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