Last Breath: un tuffo nell’ossigeno della disperazione

Alex Parkinson trasforma un calamitoso incidente sottomarino in un thriller claustrofobico, dove ogni secondo può essere l’ultimo

a cura della Redazione

Presentato in sala dopo il successo streaming, Last Breath racconta una delle storie vere più incredibili degli ultimi anni: nel 2012, un subacqueo viene lasciato sospeso a 300 piedi di profondità con pochissimo ossigeno, in una situazione in cui l’oceano e il tempo sono nemici spietati. Alex Parkinson, regista già autore del documentario omonimo, porta sul grande schermo il dramma con rigore e immedesimazione, riproducendo fedelmente le dinamiche di una tragedia che ha del miracoloso.

La tensione è palpabile fin dalle prime inquadrature: ogni scricchiolio, ogni movimento nel mantello nero dell’oceano amplifica lo spasmo di chi guarda. Finn Cole regala una performance fisica e silente nei panni di Chris, il sommozzatore in emergenza; Woody Harrelson interpreta con paterna determinazione Duncan, veterano nella campana subacquea; mentre Simu Liu – più algido e controllato – è Dave, l’uomo perfetto nel momento sbagliato. Il trio funziona grazie a una regia asciutta e a un sound design che rende ogni respiro un privilegio.

Il racconto procede con precisione chirurgica: i dettagli tecnici del lavoro sott’acqua non diventano ostacoli per lo spettatore, ma alimentano la suspense. È la cronaca del tema più puro: resistenza, coesione e impegno nei confronti del compagno. A spiccare è la musica pulsante, che cresce con l’ossigeno che si fa scarso, trasformando l’emergenza in un battito sonoro capace di soffocarti.

Che Last Breath piaccia o meno, non si può negare la sua forza: un thriller che non cerca l’epocalità, ma fare di ogni secondo una questione di vita o morte. Più che uno spettacolo, è una morsa al petto. E, al netto di qualche cliché narrativo, è un’opera che – come pochi – ci ricorda quanto siamo fragili quando il mondo reale chiude le vie d’uscita.

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