Con Jay Kelly, Noah Baumbach abbandona i drammi corali e familiari che lo hanno reso celebre per affrontare un tema più grande e universale: il peso della fama, la paura dell’oblio e la fragilità del tempo che scorre. A dargli corpo sono due interpreti inattesi e magnetici: George Clooney, star in declino alle prese con il bilancio della propria vita, e Adam Sandler, manager devoto ma consumato dalle stesse inquietudini del suo assistito.
Il film, presentato in concorso a Venezia, alterna il registro della commedia al dramma più intimo. Clooney offre una delle sue performance più sfumate: ironico, fragile, capace di raccontare con lo sguardo un uomo che vive sospeso tra rimpianti e paura di essere dimenticato. Sorprende Sandler, che finalmente si libera dei toni caricaturali a cui ci aveva abituato, per consegnare un personaggio tenero e malinconico.

Dal punto di vista tecnico, Jay Kelly è un’opera di grande eleganza: la fotografia di Linus Sandgren costruisce una tavolozza visiva luminosa e malinconica, quasi da cartolina europea, mentre la colonna sonora di Nicholas Britell si muove con discrezione, aggiungendo spessore emotivo senza mai invadere.
Baumbach, però, inciampa nella sua stessa ambizione. Nel tentativo di realizzare un film che fosse al tempo stesso omaggio al cinema, riflessione sulla celebrità e racconto esistenziale, finisce per disperdere la forza narrativa in troppi rivoli. Alcune scelte – come i flashback e i momenti meta-cinematografici – risultano più compiaciute che necessarie, rischiando di trasformare l’intensità emotiva in sentimentalismo.

La sensazione è quella di un film che funziona a tratti, soprattutto quando lascia spazio alla relazione tra Clooney e Sandler, cuore pulsante della storia. È lì che Baumbach ritrova la sua naturalezza, la capacità di far emergere il non detto, le fragilità quotidiane, le paure che appartengono a tutti. Quando invece forza la mano verso un lirismo troppo dichiarato, l’opera perde compattezza e rischia l’autoreferenzialità.
Jay Kelly resta un film importante, non tanto per la sua perfezione narrativa, quanto per la potenza interpretativa del suo protagonista e per la sorpresa di un Sandler inedito. È un lavoro che emoziona più per i suoi momenti di verità che per la sua architettura complessiva. Baumbach non firma il suo capolavoro, ma consegna comunque un’opera che, pur tra luci e ombre, lascia tracce di sincera malinconia e si inserisce nel filone più intimo del suo cinema.

