Con In the Hand of Dante, Julian Schnabel torna a Venezia con un film che è insieme dichiarazione d’amore per la letteratura e prova di forza visiva. Ispirato al romanzo di Nick Tosches, l’opera intreccia due piani narrativi: la Firenze trecentesca, dove Dante Alighieri compone la Divina Commedia, e la New York del nostro tempo, in cui lo scrittore Nick Tosches si trova coinvolto in un mistero legato a un presunto manoscritto originale del poeta.
Schnabel, pittore prima ancora che regista, costruisce un film che somiglia più a una galleria di quadri che a una narrazione classica. Alterna bianco e nero a esplosioni di colore, riti medioevali a gangster story metropolitana, filosofia a violenza, sacro a profano. Il risultato è un’opera febbrile, traboccante di suggestioni, interpretata da un cast sorprendente: Oscar Isaac presta corpo e intensità tanto al Dante storico quanto al Tosches contemporaneo, affiancato da volti come Al Pacino, Gal Gadot, Gerard Butler e persino Martin Scorsese.
Eppure, in questa abbondanza di immagini e di idee, si avverte anche il rischio dell’eccesso. Schnabel non cerca mai l’equilibrio: preferisce lo slancio visionario, la vertigine estetica. Questo lo rende affascinante, ma a tratti disorientante. Lo spettatore viene travolto più dalla forma che dal racconto, rapito da lampi visivi ma lasciato a volte senza un filo emotivo a cui aggrapparsi.
Il film resta comunque un’esperienza radicale, che rifiuta la semplificazione e chiede di essere vissuta più che seguita. È un’opera che ambisce a diventare poesia cinematografica, e proprio in questo suo farsi “poema per immagini” risiede sia la sua forza che la sua fragilità. In the Hand of Dante divide, scuote, e lascia l’impressione di un gesto artistico più grande della sua stessa storia. Un atto di fede nella potenza del cinema come arte totale, capace di rischiare il fallimento pur di sfiorare la trascendenza.

