Con How to Shoot a Ghost, presentato fuori concorso alla Mostra di Venezia, Charlie Kaufman regala un cortometraggio che si muove come una poesia visiva: intimo, rarefatto, inquieto. In appena mezz’ora, lo spettatore segue le traiettorie silenziose di due figure che non appartengono più al mondo dei vivi: un traduttore libanese queer e una fotografa metà irlandese. Sono anime in transito, presenze senza peso, che vagano tra le strade di Atene osservandola con uno sguardo sospeso, come se il tempo non avesse più dominio.
La città stessa diventa un personaggio vivo. Atene, con le sue rovine che raccontano millenni e i suoi scorci moderni brulicanti di vita, è specchio e controcanto delle voci interiori dei protagonisti. Kaufman la filma come un organismo fragile e insieme eterno, un labirinto di storia e di solitudine, che accoglie i fantasmi senza respingerli. Così i monumenti e le strade, i frammenti d’archivio e i dettagli quotidiani, si intrecciano fino a diventare parte della stessa materia emotiva.
Il linguaggio del film è volutamente frammentario. Kaufman non cerca la linearità narrativa: sceglie piuttosto un mosaico di immagini, fotografie, filmati di repertorio, suoni improvvisi e silenzi meditativi. Non c’è una trama nel senso tradizionale, ma un flusso che scivola come una memoria collettiva, oscillando tra il personale e l’universale. È un cinema che non spiega, ma evoca. Che non vuole dare risposte, ma domande da portarsi dietro.

La voce narrante di Eva H.D., autrice della sceneggiatura, accompagna questo viaggio come un sussurro. Le sue riflessioni, intime e malinconiche, parlano di desideri non realizzati, di ansie che annullano la presenza, di memorie che si dissolvono. È una scrittura che si avvicina alla poesia pura, in perfetto dialogo con le immagini ipnotiche curate dalla fotografia di Michał Dymek e dalle musiche eteree di Ella van der Woude.
Il film esplora la morte senza tragedia né enfasi drammatica. Non c’è ricerca di redenzione o di catarsi: i protagonisti non chiedono nulla, non aspettano nulla. Si limitano a esistere come presenze leggere, lasciandosi attraversare dal mondo e osservandolo con la quiete di chi ha accettato la propria condizione. È in questo abbandono che si svela la chiave del corto: vivere non significa lasciare un segno eterno, ma cogliere il senso fragile e immediato della propria presenza.
How to Shoot a Ghost conferma ancora una volta la capacità unica di Kaufman di piegare il cinema alla riflessione filosofica. Non è un racconto tradizionale, ma un’esperienza sensoriale che scivola sotto pelle, un film che sembra voler abitare più la memoria dello spettatore che il suo sguardo immediato. Un’opera che invita al silenzio, alla contemplazione, e che ci ricorda che forse la vita, come l’arte, non è altro che una scia di ombre che proviamo a catturare prima che svaniscano.
