Con Elisa, Leonardo Di Costanzo porta al Festival di Venezia un film che non urla, non colpisce con gesti plateali, ma scava lentamente nelle pieghe di un’anima ferita. La protagonista, interpretata da una straordinaria Barbara Ronchi, è una donna imprigionata non solo dalle sbarre di un carcere alpino immerso nella neve, ma soprattutto da un passato che torna a bussare con forza.
La scelta registica è chiara: puntare sul non detto, sul peso dei silenzi, su inquadrature statiche che raccontano più di mille dialoghi. Ronchi regge interamente il film, con uno sguardo che riesce a racchiudere dolore, rimorso e disperazione senza mai scivolare nell’eccesso. È proprio nella sua intensità misurata che Elisa trova la sua parte migliore.

La fotografia di Luca Bigazzi amplifica questa dimensione sospesa: il bianco della neve e le atmosfere fredde diventano specchio della solitudine della protagonista, mentre il carcere appare come una gabbia fisica e mentale. È un cinema che invita lo spettatore a osservare, a interrogarsi, a sospendere il giudizio.
Eppure, tanta eleganza formale rischia talvolta di trasformarsi in distanza emotiva. Il ritmo è molto lento, quasi ipnotico, e la narrazione procede più per accenni che per sviluppo. Alcuni passaggi si riducono a riflessioni statiche, lasciando la sensazione che il racconto si fermi, che la tensione non esploda mai davvero.

Elisa è un film che divide: per chi cerca un’esperienza cerebrale e meditativa, capace di stimolare riflessioni su colpa e giustizia, rappresenta una proposta preziosa. Per chi invece desidera emozione immediata e tensione drammatica, può risultare troppo rarefatto e inerte.In ogni caso, Di Costanzo conferma la sua cifra personale: un cinema che osserva senza giudicare, che preferisce il dubbio alla certezza. E Barbara Ronchi, con la sua interpretazione memorabile, rende Elisa un’esperienza che resta impressa, nonostante le sue ombre narrative.
