“Amami quanto io t’amo”: Alfonso Signorini si racconta oltre la tv, nel suo debutto narrativo

Con Amami quanto io t’amo, pubblicato da Mondadori, Alfonso firma il suo vero debutto nel romanzo, sorprendendo anche chi lo conosce bene

di Angelica Malaguti

Alfonso Signorini è uno di quei personaggi che sembrano vivere almeno tre vite contemporaneamente. Penna affilata e mente brillante, è stato per anni un osservatore instancabile dell’Italia che cambia: giornalista, direttore di magazine, volto televisivo tra i più riconoscibili del Paese. Ma prima di tutto – e spesso ce lo dimentichiamo – Signorini è un uomo di libri. Ne ha scritti quattordici, esplorando storie, biografie, vite altrui e intime confessioni con una sensibilità inconfondibile.

Eppure, nonostante tutto questo bagaglio letterario, gli mancava ancora una tappa fondamentale: la narrativa pura. Quel territorio senza rete in cui i personaggi fanno ciò che vogliono, la fantasia supera il dato reale e l’autore si lascia trasportare, anziché guidare. Con Amami quanto io t’amo, pubblicato da Mondadori, Alfonso firma il suo vero debutto nel romanzo, sorprendendo anche chi lo conosce bene.

Lo abbiamo incontrato in un momento speciale della sua vita, tra nuovi equilibri, una stagione di ritrovata calma creativa e un amore appena celebrato. Ed è stato lui stesso a raccontarci come è nato questo nuovo capitolo, cosa si nasconde dietro Alvise e Leonardo e perché, oggi più che mai, aveva bisogno di parlare d’amore.

Cosa l’ha spinta, dopo tanti anni di giornalismo e televisione, a mettersi alla prova con la narrativa?

In realtà non vedevo l’ora di aprire un nuovo capitolo. È stata una proposta inattesa da parte di Mondadori, non una mia richiesta, e forse è anche questo ad averla resa così sorprendente. Questo è il mio quindicesimo libro, ma finora mi ero sempre occupato di B.O.A., un genere che ti lascia meno libertà: hai una biografia come struttura portante, un’ossatura entro cui muoverti.

Sentivo invece il bisogno di respirare, di dare spazio alla fantasia, alla creatività. Quando Mondadori mi ha invitato a esordire nella narrativa, mi sono detto: “Perché no?”. E complice un momento di relativa calma dagli impegni televisivi, mi sono buttato. Mi sono perso nella scrittura. E sì, mi è piaciuto tantissimo.

Qual è stato il momento in cui ha capito che questa storia doveva essere raccontata?

È una storia che porto dentro da anni. Nasce da una breve di cronaca: una famiglia dell’alta società che aveva insabbiato un fatto terribile. Da lì la mia immaginazione ha cominciato a lavorare.

Quando ho iniziato a scrivere, però, è successo qualcosa che già conoscevo ma che ogni volta mi sorprende: sono i personaggi a prenderti per mano e portarti dove vogliono. Non avevo una struttura rigida, anzi, non la volevo. Mi sono lasciato guidare.

E avevo un desiderio forte: parlare d’amore. Negli ultimi anni mi sembrava che se ne parlasse troppo poco, nonostante sia il motore delle nostre vite. Io sono un lettore compulsivo, e sentivo la mancanza di storie che trattassero l’amore nella sua forza più autentica. Questo libro nasce anche da lì.

C’è un episodio reale, una persona o un’emozione concreta da cui ha tratto ispirazione?

I personaggi sono nati in modo naturale perché, in un certo senso, sono dentro di me. In Alvise riconosco molto della mia infanzia: la sensibilità, l’isolamento, la solitudine, la sensazione di essere incompreso.

In Leonardo ritrovo le mie origini. Vengo da una famiglia che viveva in un quartiere popolare, proprio come il suo. Famiglie semplici, con grandi valori. Valori che cerco di portare con me ogni giorno. Raccontarli è stato semplice, quasi istintivo, perché sono parte del mio vissuto.

Quanto è stato difficile trovare la voce narrativa giusta per raccontare Alvise e Leonardo?

La storia attraversa l’Italia dagli anni Sessanta a oggi, con tutte le trasformazioni che abbiamo vissuto. Alvise è un visionario, un imprenditore che si forma all’estero, tra i primi a digitalizzare la sua azienda, uno che lavora con Bezos. È una figura molto contemporanea, complessa, sfaccettata.

La voce narrativa doveva tenere insieme tutto questo: il passato, il presente, le radici e la modernità. Non è stato semplice, ma è stato incredibilmente stimolante.

Il romanzo parla di un amore che sfida aspettative e convenzioni. In un momento così significativo della sua vita privata — il matrimonio con Paolo dopo quasi 25 anni — quanto sente che Amami quanto io t’amo rispecchi anche il suo percorso verso l’autenticità?

Avevo voglia di parlare d’amore perché l’amore è centrale nella mia vita. C’è sempre un legame tra ciò che scriviamo e ciò che viviamo: non può essere altrimenti.

È stato anche un libro condiviso: Paolo ha una formazione imprenditoriale e mi ha aiutato molto su aspetti che per me erano quasi ostici. Io che non so distinguere una riunione sindacale da un consiglio di amministrazione, diciamolo pure.

Ma oltre a questo, ogni libro contiene pezzi della tua vita, del tuo percorso, del tuo desiderio di verità. E sì, questo romanzo parla anche del mio cammino verso un amore vissuto senza reticenze, senza più mediazioni.

Con la fine della sua conduzione al Grande Fratello ha recuperato tempo, profondità, spazio interiore?

Non ho abbandonato per sempre la televisione, quindi tornerò. Ma il fatto di avere finalmente del tempo libero mi ha fatto bene. L’ho usato per scrivere, certo, ma anche per continuare il mio lavoro di regista, per prendermi cura di me stesso: mangiare meglio, fare sport, passare più tempo con gli amici. Ho migliorato la qualità della mia vita.

In questo senso il romanzo è stato anche un passaggio simbolico: un modo per fermarmi, respirare, guardarmi dentro. E questo sì, è stato preziosissimo.

Se questo momento della sua vita fosse un capitolo del romanzo, come lo intitolerebbe?

Domanda difficilissima. La mia vita oggi è una tavolozza: un giorno è blu, il giorno dopo è fucsia, quello dopo ancora nero. È la vita, piena di cambiamenti, sfumature, contrasti.Forse il titolo potrebbe essere: “C’è ancora tanto da vivere”. Perché è così che mi sento.

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