Non era la strada più semplice e, proprio per questo, Glenn Martens ha scelto di percorrerla. Al suo debutto come direttore creativo di Maison Margiela, il designer belga sceglie la collezione Artisanal, la più radicale, irripetibile, quasi mistica tra le anime della Maison. E lo fa da un luogo che parla già di memoria: Le Centquatre-Paris, sede dell’ultima sfilata firmata da Martin Margiela in persona.
La narrazione, però, non si esaurisce nel gesto simbolico. Inizia, semmai, proprio lì.
Una genealogia belga
Martens, come Margiela, arriva da Anversa. Come lui, ha attraversato la scuola di Gaultier. E come Galliano, sa che il linguaggio della moda non è mai neutro. La sua Couture è densa, stratificata, carica di dettagli e tecniche che non cercano di piacere, ma di resistere al tempo e alla lettura superficiale.
Maschere guanto che occultano lo sguardo, rigide come corazze d’argento, o impalpabili come chiffon. Ricami, collage visivi, tessuti trattati come pittura fiamminga su pelle e tela. Le silhouette sono architetture gotiche e il corpo si trasforma in una rovina preziosa, in una torre misteriosa, in un altare del gesto sartoriale.
Tra Galliano e Margiela, un nuovo codice
L’eredità pesa — o meglio, vibra. Da una parte c’è il minimalismo destrutturato di Martin Margiela, che trasformava l’incompiuto in grammatica visiva. Dall’altra, l’estetica eccessiva e teatrale di John Galliano, in grado di costruire universi immaginari attraverso la sovrapposizione di segni e narrazioni. Martens, invece, porta una terza via, più spigolosa: l’eredità per lui non è un archivio da citare, ma una tensione da incarnare.
Eppure, qualcosa si perde. Dove Margiela lasciava spazi vuoti e Galliano dissolvenze, Martens sembra voler incidere tutto con decisione assoluta. Nessuna levità, poca ambiguità. La leggerezza, quella intellettuale, è l’unica grande assente.
Couture come atto di resistenza
La collezione Artisanal 2025 è couture in senso pieno: nella cura del dettaglio maniacale, nella tecnica, nella visione. Ma anche nella ritualità. I lavoranti che si abbracciano in backstage, i camici bianchi, il designer che non esce alla fine: non è solo protocollo, è liturgia. Il gesto si fa politico, e la moda torna a essere luogo di appartenenza, non di performance.
In passerella, abiti lunghi, patchwork sofisticati, sovrapposizioni in PVC, piumaggi sintetici e tacchi-scultura. Tutto è costruito con precisione chirurgica, ma è anche profondamente emotivo. Non cerca di essere bello: cerca di essere necessario.