“Dentro la Materia”: conversazione con Antonio Piluso

Materia viva: metallo, luce e tempo diventano linguaggio poetico nei gioielli di Pilgiò.

a cura della Redazione

A Milano, tra i banchi di un laboratorio che profuma di fuoco e sali, Antonio Piluso — Pilgiò — ha trasformato il metallo in paesaggio.
Grazie alle texture esclusive dell’Oro Muto e del Platino Muto, ha inaugurato un lessico tattile: superfici porose, segni che catturano la luce, griffe che diventano scrittura.

In questa conversazione ci concentriamo su due solitari appena nati, per raccontare un percorso che intreccia mestiere e intuizione, funzione e linguaggio.
Il lavoro procede per tempi lenti: passaggi termici e chimici che mutano la pelle del metallo, fino a ottenere una materia che assorbe e restituisce luce in modo diffuso. Le micro-geometrie garantiscono stabilità alla pietra, mentre le superfici vissute dall’uso, registrano una patina personale, come una scrittura che si deposita giorno dopo giorno.

È in questo dialogo tra gesto tecnico e gesto poetico che il gioiello prende voce: un oggetto che non si limita a brillare, ma racconta.

Ecco le domande rivolte direttamente ad Antonio Piluso presso il suo laboratorio.

Antonio, nella tua formazione e storia da orafo il tuo rapporto con le griffe nasce presto. Com’era “imparare” un castone allora?
«All’inizio, da apprendista, si facevano con la bastina girata a mano e l’inserimento delle punte
a coda di rondine. È stato un passaggio formativo importante: allenava l’occhio, la mano e la
pazienza. Con il tempo però sentivo che quel modo così rigoroso non parlava ancora la mia lingua.
Quando ho aperto il mio laboratorio ho cercato un’altra strada e reinterpretazione del gioiello: una
materia più vera, terra solcata e ruvida, grezza e corporea. Da lì è nato il desiderio di ripensare
le griffe, non per negarle ma per farle diventare segno e texture.»

Come si traduce questa ricerca nei due solitari di oggi?
«Nel primo anello un solitario a griffe in Platino Muto vive all’interno di una struttura
maggiore in Oro Muto bianco (in foto a destra). L’oro è lavorato come una rete, una trama che sembra un
merletto arcaico o roccia porosa. Dentro e intorno alla rete vive un diamante protagonista centrale
assieme ad altri piccoli diamanti, minuscoli punti luce che si accendono nelle cavità. Penso spesso
alla neve fresca in montagna quando esce il sole: quella pulsazione di luce è il ritmo dell’anello.»

E il secondo?
«È più raccolto. Una fascia materica in Oro Muto bianco, scavata e compatta, da cui emerge il
solitario in Platino Muto (in foto a sinistra): sembra un bucaneve che attraversa la terra. I due metalli restano distinti. Il bianco caldo dell’Oro Muto gioca in contrapposizione al bianco freddo del Platino Muto.
Le due forme si uniscono in un abbraccio. È un equilibrio che tiene insieme nobiltà e istinto.»

Perché il platino?
«Venendo da una scuola classica e lavorando per grandi nomi della gioielleria milanese, per me
il platino è da sempre il riferimento più alto tra i metalli. Mi interessa metterlo a servizio della
pietra attraverso griffe solide, ma anche come struttura interna completa, un “endo-scheletro”
che dialoga con l’eso-scheletro in Oro Muto. Così, la funzione incontra il linguaggio.»

E il tempo, come agisce su questi anelli?
«Nulla è statico. L’Oro Muto prende patina, si smussa sulle sporgenze, si addensa nei
sottosquadri; il pH della pelle lascia una traccia personale, sempre diversa. Anche il Platino Muto,
pur essendo più stabile per natura, con l’uso ammorbidisce i bordi, prende una pelle sua, si
accorda al gesto ed è il vissuto a completare la forma.»

Approfondimento sui brevetti Oro Muto e Platino Muto riguardo la materia come mezzo di racconto

Con la linea Oro Muto Pilgiò ha firmato una svolta: a Milano, dagli anni ’90, l’oro non è più solo brillantezza, ma paesaggio. Una superficie spugnosa, scabra, porosa, ottenuta con passaggi termici e chimici che trasformano la pelle del metallo e inaugurano un’estetica materica. È una ricerca che ha ridefinito il lessico del gioiello: non l’oggetto “finito” ma una scultura viva che assorbe e restituisce luce in modo diffuso.

Nei solitari a doppia struttura di cui parla Antonio, l’anello in Platino Muto a griffe è un corpo tecnico completo che tiene il diamante e garantisce micro-geometrie affidabili nel tempo; l’eso-scheletro in Oro Muto bianco definisce tatto, ritmo, chiaroscuri. I sottosquadri trattengono micro-patina; i piani sporgenti si levigano con l’uso, e i vuoti alleggeriscono e incanalano luce. Il risultato non è mai identico due volte: il pH, le abitudini, le stagioni incidono come una scrittura personale.

Il platino resta il metallo ideale per griffe e montature di precisione. Lo definiamo “custode” naturale del diamante: neutrale, tenace, bianco per natura. Il platino muta anch’esso come l’Oro Muto, acquisendo micro-rilievi che si modellano, ammorbidendo e levigando i bordi con la pelle: cambia colore come materia per usura selettiva e micro-abrasione, accordandosi (nell’anello) all’Oro Muto che lo circonda. È in questa tensione tra due bianchi che i solitari trovano voce.

Il diamante è il punto di quiete: incolore, taglio brillante, ancorato con griffe in Platino Muto. Intorno, nella versione “a rete”, diamantini punteggiano le cavità come ghiaccio minuto in un canalone d’inverno. La scelta della pietra è pulita e dichiarata; la montatura è pensata perché la gemma preziosa respiri luce, senza teatralità.

Questo è il senso dell’Oro Muto: non coprire la materia ma ascoltarla. Non imporre una finitura ma lasciare che l’uso la scriva. Nei due solitari di Antonio, il gesto tecnico (l’anello in Platino Muto a griffe) e il gesto poetico (la scocca in Oro Muto che lo racchiude e imprigiona) convivono.

È un linguaggio che appartiene a Pilgiò da decenni e che continua a evolvere ogni volta che un anello entra in contatto con una mano.

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