C’è un filo sottile che unisce il mito del teatro alla fascinazione senza tempo della moda: è lo stile come gesto, come identità, come dichiarazione al mondo. In Duse, presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, Pietro Marcello cattura l’essenza di Eleonora Duse, la “Divina”, restituendole la sua aura fragile e luminosa.
Interpretata da una intensa Valeria Bruni Tedeschi, la Duse non è raccontata come una diva distante, ma come una donna che ha fatto della sobrietà il proprio lusso. Nei suoi costumi di scena minimalisti, lontani dagli eccessi decorativi della rivale Sarah Bernhardt, la Duse trovava una forma di modernità radicale: un’estetica che parlava di autenticità, di sottrazione, di un lusso interiore capace di brillare oltre l’apparenza.
Il film ci porta negli anni Venti, tra il declino della salute e il ritorno sulle scene, in un’Italia che si prepara all’avvento del fascismo. In questo contesto di crisi, la Duse appare come un’icona che sfida la Storia con la forza della sua presenza scenica. E proprio qui il cinema di Marcello trova la sua chiave: fare della recitazione un atto politico ed estetico, un modo per dire che lo stile – quello vero – è resistenza, è libertà.
Ogni dettaglio del film – dalle scenografie immerse in chiaroscuri, agli abiti che evocano tessuti grezzi e preziosi insieme – richiama un lusso sobrio e intriso di senso, non di ornamento. È lo stesso principio che guida oggi le maison di alta moda che hanno riscoperto l’arte della sottrazione, trasformando il minimalismo in segno di distinzione.
Duse non è solo un film biografico: è una lezione di stile. Racconta di una donna che seppe vivere la propria arte come un gioiello interiore, senza bisogno di orpelli, e che ancora oggi ci ispira a pensare il lusso come linguaggio silenzioso, fatto di autenticità, forza e grazia.
