Con Dead Man’s Wire, presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, Gus Van Sant riporta in scena un fatto realmente accaduto negli Stati Uniti alla fine degli anni Settanta: il rapimento del broker Richard Hall da parte di Tony Kiritsis, che lo immobilizzò con un fucile collegato a un grilletto a pressione, trasformando la sua disperazione in un evento trasmesso in diretta nazionale. Una vicenda che all’epoca scosse l’America, ma che nel film diventa molto più di una semplice cronaca nera: un dramma mediatico e umano che riflette sul potere corrosivo dell’immagine.
Van Sant sceglie una messa in scena sospesa tra realismo e surrealismo. La tensione del sequestro è palpabile, ma l’elemento disturbante è la sua trasformazione in spettacolo: telecamere, cronisti e spettatori diventano parte attiva di un rituale collettivo, che trasforma il dolore in intrattenimento. È un cinema che richiama il grottesco e il satirico, ma resta profondamente inquietante per la sua attualità.
Bill Skarsgård incarna un Tony Kiritsis fuori controllo, fragile e rabbioso, capace di oscillare tra disperazione e delirio. Al suo fianco Dacre Montgomery dà corpo a una vittima intrappolata in una situazione tanto paradossale quanto tragica, che lotta per mantenere una dignità di fronte alle telecamere. Attorno a loro si muovono figure emblematiche: il giornalismo aggressivo, l’opinione pubblica divisa, la giustizia impotente.
Il film non offre vie di fuga rassicuranti: è un’opera che mette a disagio, volutamente. Niente catarsi, nessun trionfo della morale, solo l’amara consapevolezza che quando la disperazione incontra il voyeurismo collettivo, il confine tra tragedia e spettacolo si annulla. Van Sant costruisce così un thriller che è anche una satira nera, in cui la vera violenza non sta solo nel gesto criminale, ma nello sguardo di chi osserva e consuma.
Dead Man’s Wire è un’opera che interroga direttamente il presente: oggi come allora, il dolore privato diventa intrattenimento globale. Un film lucido e spietato, che lascia lo spettatore con una domanda scomoda: quanto siamo complici, noi, di quel bisogno di trasformare ogni follia in spettacolo?
