C’è un film, al Lido, che ha attirato sguardi e domande più che applausi immediati. Non è una passerella di star né un kolossal patinato: è un horror. Eppure, a Venezia 82, La valle dei sorrisi di Paolo Strippoli ha mostrato come anche il genere più oscuro possa riflettere la nostra contemporaneità con la raffinatezza di un abito su misura.
Un villaggio che nasconde il dolore
La storia si apre nel paese immaginario di Remis, incastonato tra montagne che paiono scolpite dal silenzio. Qui ogni settimana gli abitanti partecipano a un rituale tanto inquietante quanto poetico: affidano il proprio dolore a Matteo, un ragazzo destinato a farsi “santo” suo malgrado. A scoprire il meccanismo è Sergio, un insegnante interpretato con intensità da Michele Riondino, che diventa guida e testimone in un percorso in cui la quiete idilliaca si trasforma in claustrofobia. Accanto a lui, Romana Maggiora Vergano e il giovane Giulio Feltri contribuiscono a rendere vivo un microcosmo che, dietro il sorriso, cela ferite profonde.
Tra moda e cinema: l’estetica del perturbante
Strippoli lavora sull’horror come su un tessuto prezioso. Ogni fotogramma ha la lucidità di una fotografia editoriale: la fotografia di Cristiano Di Nicola alterna la nitidezza dei paesaggi friulani alla penombra delle stanze, creando un dialogo costante tra luce e ombra, tra bellezza e inquietudine.
Non è un caso che il film abbia una forte valenza estetica: scenografie e costumi – firmati rispettivamente da Marcello Di Carlo e Susanna Mastroianni – avvolgono i personaggi come abiti sartoriali che, anziché proteggere, tradiscono la loro fragilità. Un’eleganza disturbante che ben si sposa con lo sguardo di un festival da sempre attento ai confini tra cinema e arte.
Una metafora del presente
Alla conferenza stampa, Strippoli ha definito l’horror “uno dei generi più liberi”. In La valle dei sorrisi questa libertà diventa specchio del nostro tempo: un mondo che si illude di cancellare il dolore collettivo attraverso scorciatoie, senza affrontarlo. Remis non è solo un villaggio: è la metafora di una società che anestetizza le proprie ferite con rituali, mode e immagini perfette, come filtri di un social network.
Riondino ha raccontato il suo personaggio come un uomo che rifiuta l’inganno e cerca la verità. Una tensione che rende il film un racconto universale: quello della ricerca di autenticità in un mondo di maschere.
Se da un lato La valle dei sorrisi conquista con atmosfera e fotografia, dall’altro paga una certa ridondanza narrativa. Alcune sequenze avrebbero potuto mantenere la stessa forza con meno indugi, evitando un ritmo che talvolta si dilata. Anche la simbologia, pur efficace, rischia in alcuni momenti di farsi didascalica, soprattutto per un pubblico già abituato alle metafore sociali del cinema horror internazionale.
Eppure, proprio questa scelta di intensità estrema è ciò che distingue Strippoli: un regista che osa e non teme l’eccesso. Nel panorama italiano, dove l’horror è genere raro e spesso marginale, La valle dei sorrisi ha il merito di aprire una nuova strada.
Perché vale la pena
In sala arriverà dal 17 settembre, distribuito da Vision Distribution. Ed è un film da vedere non solo per gli amanti del genere, ma per chiunque cerchi nel cinema la stessa esperienza che la moda offre davanti a una sfilata: la capacità di trasformare i materiali della realtà in visione, la paura in bellezza, il buio in linguaggio.
A Venezia, La valle dei sorrisi non ha cercato di strappare applausi facili. Ha preferito seminare inquietudine. E, come spesso accade nella moda e nell’arte, ciò che disturba è anche ciò che resta.
