Mogli “in vetrina”: il caso che ha scosso il web italiano

Il gruppo, aperto sei anni fa, negli ultimi giorni aveva visto un boom di iscritti: oltre 32mila membri, con seimila nuove adesioni solo nell’ultima settimana

a cura della Redazione

Un gruppo Facebook dal nome apparentemente innocuo, “Mia Moglie”, si è trasformato in una vetrina tossica e degradante, alimentando per anni una cultura di possesso e violenza verbale sulle donne. Servono più di 24 ore di clamore mediatico e migliaia di segnalazioni prima che Meta decida di intervenire e chiuderlo, ma intanto la questione è esplosa, rivelando un problema culturale e legale che va ben oltre il singolo caso.

Il gruppo, aperto sei anni fa, negli ultimi giorni aveva visto un boom di iscritti: oltre 32mila membri, con seimila nuove adesioni solo nell’ultima settimana. Gli utenti condividevano, spesso in forma anonima, immagini di donne spacciate per “le proprie mogli”: modelle rubate dal web, scatti generati dall’Intelligenza artificiale e, in alcuni casi, foto che sembravano provenire dalla vita privata. Dettagli di corpi femminili – cosce, décolleté, piedi – venivano esposti al pubblico giudizio, quasi sempre accompagnati da commenti volgari e sessisti.

Non si trattava solo di “goliardia”: il meccanismo si fondava sulla spettacolarizzazione non consensuale dell’immagine femminile, con utenti che arrivavano perfino a vantarsi di aver pubblicato senza permesso. La legge italiana, però, parla chiaro: l’articolo 10 del Codice civile punisce l’abuso dell’immagine altrui se lesivo del decoro o della reputazione; la legge sul diritto d’autore vieta la diffusione di ritratti senza consenso; il codice penale (art. 615-bis) sanziona la diffusione di immagini private. Eppure, nonostante i richiami e le segnalazioni alla Polizia Postale, gli iscritti non avevano smesso: anzi, tra insulti e minacce, il gruppo si era trasformato in un ring digitale.

A chiedere lo stop erano intervenuti anche i parlamentari Pd della Commissione Femminicidio, che hanno definito il fenomeno “sconcertante e inaccettabile, specchio di una cultura di sopraffazione che ignora il consenso delle donne”. Solo oggi, a ora di pranzo, Meta ha finalmente chiuso il gruppo, motivando la decisione con la violazione delle policy contro lo sfruttamento sessuale.

Resta un interrogativo: molti iscritti, come già accennato nei commenti, potrebbero essersi trasferiti in nuovi gruppi privati. La battaglia, dunque, non è finita.

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