Wes Anderson non cambia rotta, eppure riesce sempre a sorprenderci. Con La trama fenicia, presentato in concorso al Festival di Cannes 2025, il regista americano torna a mescolare estetica maniacale e humour surreale per costruire un’opera che è al tempo stesso un puzzle narrativo, un libro pop-up da sfogliare, e un’ode malinconica al caos dell’eredità familiare.
È il suo cinema nel senso più puro: una coreografia visiva piena di simmetrie, costumi iconici e personaggi al limite del grottesco, ma anche un racconto stratificato sul peso della memoria, la ricerca di una seconda possibilità e il tentativo – per quanto folle – di cambiare il mondo.
Utopie, attentati e risate amare: il sogno (pericoloso) di Anatol Zsa-zsa Korda
Nel 1950 immaginato da Anderson, tutto comincia con un disastro aereo. Sopravvive Anatol Zsa-zsa Korda, magnate del settore bellico interpretato da un magnetico Benicio Del Toro. Sulle orme di un improbabile Charles Foster Kane, Korda sogna di costruire “La trama fenicia”: un colossale progetto infrastrutturale tra dighe e ferrovie, che richiama le mitologie commerciali del Mediterraneo antico. Ma dietro la visione utopica si cela un uomo spietato, braccato da governi, terroristi e persino familiari.
In un gesto imprevedibile, Korda nomina erede Liesl, sua figlia cresciuta in convento (una sorprendente Mia Threapleton). Tra rosari di diamanti, benedizioni bizzarre e dinamiche da commedia assurda, la giovane si ritrova a dover ricucire i fili di una genealogia spezzata.
Famiglie allargate, cast corale e l’arte della digressione visiva
Come sempre, Anderson mette in scena una famiglia allargata e impossibile, un carosello di personaggi che appaiono e scompaiono come figurine: Tom Hanks, Bryan Cranston, Scarlet Johansson, Rupert Friend, Benedict Cumberbatch, Michael Cera e Bill Murray (nei panni esilaranti di un “Dio” barbuto) si muovono tra deserto e bunker segreti, cascate di dialoghi e siparietti teatrali.
Diviso in capitoli come un vecchio romanzo d’avventura, il film è una riflessione elegante e ironica sul fallimento e sulla rinascita, sulla possibilità di rimettere insieme i pezzi, anche quando sembra tutto perduto. E anche questa volta, lo stile – palette ipnotiche, scenografie minuziose, costumi firmati dalla leggendaria Milena Canonero – non è solo estetica, ma sostanza narrante.
Wes Anderson non delude: il suo cinema è ancora un rifugio visionario
C’è chi lo accusa di ripetersi. Ma Anderson dimostra che la coerenza può essere rivoluzionaria, se sa rigenerarsi. La trama fenicia non è solo l’ennesimo capitolo del suo universo stilizzato: è una riflessione sulla possibilità di costruire un’eredità diversa, su come la bellezza – anche se fragile, anche se imperfetta – possa ancora salvarci.
E se il mondo traballa, se gli aerei precipitano e le dinastie crollano, c’è ancora spazio per un atterraggio morbido: basta affidarsi al suo cinema, dove ogni cosa ha un posto, anche il disordine.
