Matrimonio o convivenza: per essere in due ci vuole un terzo?

“Il nostro è un grande amore, unico libero e senza fine; per vivere non ha bisogno di carte bollate o benedizioni” dicevano i giovani contestatori negli anni ’60.
Si affermavano così forme di unione alternative al matrimonio, in alcuni casi addirittura con esso in contrasto, basti pensare al detto – più antico e forse meno attuale – che recita “il matrimonio è la tomba dell’amore”.

Unione di coppia come fatto privato, dunque, insofferente alle norme, anche, e buon ultimo fondato sulla salvaguardia delle libertà individuali dei partner. Effetti della passione, potremmo dire con Freud, che porta gli amanti ad affermare di bastare totalmente a se stessi senza bisogno di nessun altro, a ricercare la solitudine, a vivre il terzo come un “terzo incomodo” e le leggi del vivere civile come un disagio.

Ma potrà questa unione intima e privata mantenersi al di fuori di ogni legame sociale? Il suo “isolamento” quasi sdegnoso non finirà per minare il rapporto tra i partner? Pare al riguardo un certo malessere si vada diffondendo; essere solo in due non sembra sufficiente ad essere davvero coppia.
Ed ecco le coppie di fatto chiedere un riconoscimento ufficiale, ecco la comunità omosessuale rivendicare il diritto al matrimonio, ecco ancora le numerose coppie di giovani investire le pur scarse risorse economiche disponibili per potersi sposare. Una vera coppia vuole dunque mostrarsi al mondo e pretende da questo un riconoscimento. Riconoscimento che salda il legame e in qualche modo lo rende permanente, capace di esistere anche aldilà della presenza fisica congiunta dei partner.

È questo desiderio di salvare il legame che spinge più di una coppia vissuta in regime di libera convivenza a chiedere un riconoscimento ufficiale nel momento spesso drammatico di una separazione forzata in cui la morte, biologica o civile, rischia di vincere sull’eros.

Marco Farina

Psicoterapeuta

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