Tutte le espressioni di Luciano Pavarotti by Ron Howard

Pavarotti

Niente di convenzionale nel Pavarotti di Ron Howard, presentato in anteprima alla quattordicesima edizione del Festival del Cinema di Roma. Il docufilm si svolge in 114 minuti dove il regista, premio Oscar (2002) e vincitore dell’Academy Awards, riesce a fare ordine in tale bazar di ispirazioni e interviste che è la vita di Luciano Pavarotti, uomo nobile e straordinario. Il regista ha come obiettivo quello della connessione emotiva con lo spettatore. Si destreggia, con alti e bassi, in un susseguirsi di filmati, registrazioni e file audio che rivelano due espressioni parallele di Luciano Pavarotti, anche se fortemente legate e inscindibili: l’espressione accogliente e fragile di un uomo che cede alla sua anima, e concessosi di sbagliare come marito e come padre, non ammette però, a quella più severa antagonista e magnificente espressione, l’errore vocale. Comunica con la voce e per grande umiltà decide di non riascoltarla mai.

Il documentario disegna il sorprendente ritratto di un uomo, dove gli inizi enunciano un discorso nel linguaggio risonante e retorico dell’opera, con aspetti a tratti recitati e artefatti per dichiarare solo alla fine che tutto l’artefatto e il truccato si mischia insieme al reale e all’autentico. Il cast è formato da numeri primi come Ron Howard (Regista, Produttore), Michael Rosenberg (Produttore), Jeanne Elfant Festa (Produttrice), Mark Monroe (Sceneggiatore, Produttore esecutivo), Paul Crowder A.C.E. (Montatore, Produttore esecutivo), Mark McCune (Produttore di supervisione), David Blackman (Produttore esecutivo), Dickon Stainer (Produttore esecutivo), Guy East (Produttore esecutivo), Nicholas Ferrall (Produttore esecutivo), Cassidy Hartmann (Co-Produttrice esecutiva, Consulente alla sceneggiatura), Chris Jenkins (Missaggio del suono ri-registrato).

Insieme riescono nell’ardua definizione dei contorni di un uomo articolato e complesso. Vengono scucite le continue dualità e dicotomie tra il pubblico e il privato, snocciolate le forti contraddizioni e le fragilità, emergono gli aspetti più intimi di un uomo che celebra qualsivoglia aspetto della vita. Appare come un esigente stacanovista, impegnato nel continuo lavoro volto alla perfezione, dedito ad un estenuante processo di miglioramento che lascia spazio al coraggio di cedere, ammette l’errore e fa sì che anche la bellezza possa cedere al fascino del difetto: ne è esempio una domanda posta al tenore, “Can you be so sure you’ll hit the note?”, e “No, that’s the beauty of my job”, Pavarotti risponde. Confermandosi come professionista e uomo in grado di trovare bellezza nell’imperfezione, riabilitando così una certa estetica del difetto e riportando all’attenzione l’importante probabilità di fallimento.

Le scelte tecniche

Nel momento in cui Howard approccia la vita dell’uomo e del tenore, resta colpito da quanto essa sia intrisa di drammaticità. La nascita di Pavarotti avviene durante la guerra, ha quel suo incontro ravvicinato con la morte, un padre tenore che da subito lo avvicina all’espressione vocale e tutte quelle donne che sembrano regalargli la giusta sensibilità comunicativa. “Più ne sapevo, più arrivavo a vedere Pavarotti come qualcuno che ha saputo dimostrare di poter vivere la vita con passione e con totale dedizione verso ciò che si ama”, dice Howard. “Inizialmente ero completamente assorbito dalla portata del suo viaggio, questa carriera straordinaria, sempre ai massimi livelli, il successo su tutti fronti. Ma osservando la sua vita più da vicino, ho visto anche che ha dovuto sostenere l’impatto causato dai tanti rischi artistici presi.  Non mi aspettavo quel risvolto drammatico, che me l’ha fatto sentire estremamente umano”.

Tecnicamente la produzione decide di sezionare il racconto in tre atti, per queste ragioni. L’intero progetto si muove nel racconto della voce, dell’uomo e del filantropo, con l’ambizione di spiegare come convivesse con il prezzo personale di essere diventato una celebrità. Della voce, dalla portata strabiliante, si raccontano le abilità tecniche ma anche le poche pretese di un uomo che canta per i pochi, che considera sé stesso un contadino, un personaggio che è il risultato delle esperienze vissute. Sul finire, il racconto della tecnica finisce per combaciare inevitabilmente con l’umanità e con le parole di Dickon Stainer, suggerendo “una voce che non scende a compromessi”. Dell’uomo vengono descritti tutti gli aspetti, lo raccontano la prima moglie Adua Veroni, le tre figlie e la seconda moglie Nicoletta Mantovani, insieme poi a colleghi e conoscenti. Riaffiorano tanto i sorrisi quanto le lacrime di Pavarotti, che aveva un’inesauribile fiducia nelle persone, desideroso e tormentato tanto quanto grato ed appagato.

Dei suoi aspetti filantropici, sembra impossibile riassumere tutto, troppe le iniziative di beneficenza, musicali e non, che lo hanno visto impegnato nell’aiuto dei meno fortunati, e nello specifico di bambini che vivono realtà dure, difficilmente processabili dall’infanzia. Il forte legame con Bono, la grande complicità con Lady Diana e i Pavarotti & Friends, concerti benefici spesso improvvisati all’ultimo momento. Viene raccontata la sua ossessione per il filantropico, di come verso la fine non facesse che pensare a ciò che avrebbe potuto fare per bambini e malati.

I coraggiosi ponti emotivi di Ron Howard

Ron Howard conferma la sua grande sensibilità riassuntiva, si sofferma sui particolari espressivi, non rimuove le imperfette espressioni del sopracciglio, il trucco colato, la maschera da pagliaccio che Pavarotti dice di indossare anche “con la morte nel cuore”, non taglia e anzi accentua la grandezza delle fragilità nella spontaneità di un sorriso. Non solo ambisce all’emotivo, riesce a smuoverlo con il lavoro sulla cronologia, la scelta dei fotogrammi, di colonne sonore e accompagnamenti come la lirica della Turandot di Puccini, Nessun Dorma, ritornello emotivo ricorrente. Le immagini riescono nel raccontare le imperfezioni dell’eccellenza, attraverso un processo che Howard descrive come “coraggioso, con il fine di costruire un ponte, con l’unico fine di creare collegamenti emotivi”.

Niente è convenzionale nella successione di fotogrammi, nei dialoghi a testimonianza di un uomo dalla grande libertà creativa, sfuggito al processo di cannibalismo estetico dell’omologazione senza sottrarsi però al raggiungimento delle masse: il più grande ponte emotivo mai costruito nell’Opera Lirica. Il racconto di un Luciano Pavarotti del quale si vedono tutta la linea dei sorrisi, delle lacrime, a tratti interrotta dalle forti linee della sua espressività, fuori dai paradigmi ed estraneo a qualsiasi precetto musicale, estetico, quanto più umano.

 

di Camilla Stella

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