“Il mio romanzo viola profumato” di Ian McEwan

«Ho rubato una vita e non intendo restituirla.

Siete liberi di considerare le poche pagine che seguono come una confessione.»

Parker Sparrow e Jocelyn Tarbet sono amici sin dall’infanzia. Hanno condiviso quotidianità, amori e progetti letterari, in un clima di complicità e fiducia. Ad un certo punto, come nei migliori scenari della vita reale, i protagonisti prendono strade diverse: Jocelyn conosce approvazione e successo, affermandosi nell’Olimpo della letteratura britannica; Parker ha alle spalle diversi romanzi di poco conto, una famiglia numerosa da mantenere in periferia e la professione da insegnante. L’invidia non sembra intaccare l’affetto reciproco, finché Parker non scopre un manoscritto lasciato incustodito dall’amico, il migliore che abbia mai scritto. Il crimine perfetto si consuma in pochi istanti: Parker copia il romanzo per poi pubblicarlo a suo nome. «Come resistere alla tentazione di diventare lui? Del resto che cosa significa essere io, essere lui?».

Questo brevissimo e geniale racconto di Ian McEwan, dal titolo “Il mio romanzo viola profumato”, racchiude una riflessione moderna sull’esaltazione del proprio io ed è seguito da un saggio-chiave di lettura che induce ad una riflessione forzata.

Lo scrittore inglese racconta: «Un paio d’anni fa mi trovavo a Venezia in Piazza San Marco seduto davanti a una tazza di caffè e osservavo il passaggio di migliaia di turisti come me. Quasi tutti avevano un apparecchio fotografico. A decine scattavano foto non già del Palazzo Ducale, bensí di se stessi davanti a quel palazzo. Tenevano i cellulari il piú lontano possibile o si facevano aiutare da appositi estensori. Le meraviglie di Venezia non erano complete senza la testimonianza di un io in mezzo a loro. Guardatemi, sono qui».

Cosa ci insegnano queste parole? Probabilmente servono a prendere coscienza del fatto che in ognuno di noi giace la propensione all’imbroglio di Parker. Perché rubare un manoscritto, appropiandosi dell’io narrativo di un altro, è un mero tentativo di magnificazione di sé, paragonabile al furto di una foto su Instagram o di un profilo su Facebook.

Nelle 55 pagine del racconto, diventiamo consapevoli di nutrirci ed essere dipendenti da autopromozione e  celebrità, “vivendo il colmo di quel che significa essere un io”. Il concetto dell’io lo scopriamo per la prima volta nella letteratura  dalla seconda metà del Settecento, grazie a Richardson, Austen e poi Flaubert, che creano una consapevolezza soggettiva in un contesto di descrizione narrativa oggettiva.

I nostri io moderni ne sono il risultato, solo che la loro costruzione avviene tramite un’identità digitale costantemente in vetrina che non può fare a meno della tentazione di ricrearsi ogni giorno, per diventare “qualcuno” o un influencer, diremmo oggi.

«Possiamo radunarci in massa in luoghi turistici come piazza San Marco, armati di smartphone e pronti a scattare selfie, ma siamo soli dinanzi alla tragica impermanenza del nostro io mentre, come Amleto, affrontiamo la mortalità di questa «quintessenza di polvere».

di Ginevra Bonina

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