L’Alì moderno

In un’Ostia grigia e uggiosa, l’occhio indagatore della telecamera segue, quasi sbattendoci contro, l’Alì moderno di questo film, Nader (Nader Sarhan). Il ragazzino, musulmano per nascita, ma pienamente occidentale per tutto il resto, trascorre quella che sarà la settimana di ribellione destinata a cambiare per sempre la sua vita.

Tutto inizia con uno sgarro: un coprifuoco non rispettato significa infrangere le rigide regole familiari e necessita una punizione per meditare sull’errore, come per esempio dormire fuori dalla porta di casa. Questa è solo la goccia che fa traboccare il vaso, colmo di trasgressioni che Nader compie, sprezzante dello stile di vita che gli viene imposto. Non ci pensa troppo a lungo prima di rubare o accoltellare un coetaneo durante una rissa, né tanto meno di non cedere al ricatto dei genitori lasciando la fidanzata di origini italiane, nonostante la madre gli ripeta più volte: “Loro non sono cattivi, ma noi siamo diversi in tante cose, soprattutto nella religione”. Eppure Nader di tutte queste storie non ne vuole proprio sapere: mangia carne di maiale, indossa lenti a contatto azzurre e quando i genitori lo lasciano fuori casa commenta: “Come fai a lasciare un figlio fuori casa, lo vedi che sono proprio arabi?”.

Quella che appare come una guerra contro tutti, si rivela essere anche un lacerante conflitto interiore: Nader è davvero così occidentale come crede? È infastidito quando la sua “pischella” (Brigitte Apruzzesi) indossa la minigonna e quasi spara al suo migliore amico, Stefano (Stefano Rabatti), colpevole di aver baciato sua sorella. Lei è una donna musulmana non può avere una relazione come lui. Il dubbio si scioglie l’ultimo giorno del racconto, venerdì (non un giorno a caso, è infatti il giorno di preghiera per i musulmani), quando il ragazzo si reca alla moschea, vede la madre in lacrime e scappa di corsa dalla sua ragazza: questa volta le lacrime scendono a lui. Il dramma si è sciolto e la battaglia interiore si chiude con una scena silenziosa e quasi malinconica: la famiglia di Nader, a cena dopo la consueta preghiera, siede intorno a un tavolo preparato inutilmente per quattro. Un posto, il posto del nostro Alì, rimarrà vuoto, per sempre.

Il regista, Claudio Giovannesi, non può non pensare all’Alì di Pasolini, personaggio simbolo della lotta (sempre inevitabile) per l’integrazione, e vince per la grande aderenza alla realtà, proponendo un film ricco di silenzi necessari (mai una parola di troppo, aggiunta solo per colmare il vuoto) e lasciando ai personaggi i nomi originali degli attori che li interpretano. Un film dalla nuda e cruda realtà, che paradossalmente rappresenta una storia di non accettazione della stessa; e non è un caso che nella scena in cui Nader e Stefano rubano i soldi a una prostituta, decidano di indossare una maschera, quella maschera che Nader deciderà di indossare anche tutti gli altri giorni, insieme alle sue lenti a contatto azzurre.

 

(di Marina De Faveri)

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