Il teatro è il futuro: intervista a Lino Musella

Lino Musella

Lino Musella, anche se molti di noi lo conoscono meglio nei panni di Rosario O’ Nano in “Gomorra: La serie”, è un grande uomo di teatro. Partendo dalla formazione registica fino all’approdo televisivo, ha parlato a Gilt dei suoi ultimi spettacoli, di quale pensa sarà il futuro del teatro e del suo immenso amore per Shakespeare.

In “L’Ammore nun’è Ammore”, uno dei tuoi lavori più recenti, reciti Shakespeare in napoletano. Da dove nasce questa idea? Quali sono state le maggiori difficoltà incontrate?

Questa idea nasce da Dario Jacobelli, poeta napoletano  e caro amico scomparso nel 2013. Fu lui, 15 anni fa, a cominciare la traduzione di alcuni sonetti di Shakespeare, 30 in totale, facendomeli leggere ogni tanto. Dopo la sua morte volevo restituire qualcosa di lui, così ho imparato a metterli in scena dando vita ad un sorta di tributo all’amico. Tributo che, allo stesso tempo, è molto coerente con l’intima natura del sonetto che corrisponde a una dedica o a una sorta di epitaffio.

Di questo progetto, come di molti altri, sei protagonista e regista. Da quanto ti sei avvicinato alla regia?

In realtà io ho studiato regia alla Scuola di arte drammatica Paolo Grassi, e quindi, ancora prima che come attore, nasco come tecnico. In passato ho lavorato molto nel backstage dei teatri e mi sono interessato alla parte di costruzione degli spettacoli da qualsiasi punto di vista. In seguito però, sono stato molto fortunato perché ho sempre trovato facilmente lavoro come attore.

A breve sarai anche al teatro Franco Parenti di Milano con “Who is the King”. Si tratta di un progetto che porta sulla scena otto drammi shakespeariani legati insieme (Riccardo II, Enrico IV parte I e II, Enrico V, Enrico VI parte I, II, III e Riccardo III). Quali espedienti avete usato per farlo e qual è il leitmotiv che li unisce?

Il legame, in realtà, lo ha creato Shakespeare. Infatti questi drammi nascono già in sequenza: si tratta di una serie di personaggi che, di volta in volta, vengono sviluppati nei testi successivi. C’è una volontà seriale – come quella che vediamo nelle serie televisive di questi anni – che lega tra loro i testi, con già alla base un’idea di insieme. Il tema che li unisce è quello della parabola dell’uomo al potere, un viaggio perfetto che mostra agli spettatori lo sviluppo della figura del re e della sua seduzione per il potere. In particolare, in questo spettacolo a Milano (dal 9 al 21 ottobre), proponiamo i primi due episodi, Riccardo II e Enrico IV (prima parte) per una durata complessiva di 3 ore circa.

Shakespeare sembra proprio essere una tua fissazione…

Beh, penso che sia un vangelo per tutti quelli che fanno teatro! È una presenza costante nella mia vita, l’ho sempre frequentato. Mi vengono in mente per esempio gli spettacoli di Amleto con Andrea Baracco e di Strategie Fatali con Paolo Mazzarelli (anche regista di Who is the King) che gioca su una scrittura di Otello.

Dalla formazione teatrale all’approdo in tv con “Gomorra: La serie”. Come è stato il passaggio? C’è qualcosa del teatro che sei riuscito a portare anche sul piccolo schermo?

Sicuramente sono due mondi molto diversi. In alcuni casi è possibile giocare con la teatralità e trasportarla nel cinematografico, in fondo il teatro insegna la stessa verità del cinema. Ovviamente poi quello che rende il risultato differente sono i mezzi. Nella serie di Gomorra in particolare, però, il teatro non c’è rientrato molto, da parte mia c’era più che altro una forte coscienza sociale di quella zona di Napoli. Abbiamo raccontato una realtà che conosco bene perché ci sono cresciuto vicino.

A proposito di questo, cosa risponderesti a chi dice che Gomorra veicola un’immagine negativa di questa città?

Partiamo dall’assunto che tutto ciò che si racconta diventa epico. Se pensiamo a un qualsiasi racconto attorno alla figura del criminale, prendi ad esempio Scarface, dobbiamo essere consapevoli che ci restituirà sempre un’immagine forte, perché quando lo racconti diventa grande. Questo però non significa che non vada raccontato, anche quello sarebbe scorretto. Penso tuttavia che Gomorra non sia incentrato su Napoli ma su di un’altra realtà, parallela rispetto alla vita in città: quella del mondo periferico. Proprio per questo la serie ha avuto un successo mondiale, perché non si ferma alla città di Napoli ma racconta le dinamiche di quelle realtà popolari che si ritrovano in tutte le metropoli del mondo. E poi, in fondo, a me sembra che qui da noi arrivino ancora più turisti di prima, quindi credo che quando si fa del buon cinema – e Gomorra è innanzitutto un prodotto di ottimo cinema – sia sempre positivo per una città.

Queste serie televisive di stampo cinematografico sono una ventata fresca per il nostro Paese. Che cosa promettono secondo te?

Trovo siano un segnale molto positivo perché si tratta di una forma di narrazione nuova che crea curiosità e dà delle potenzialità enormi. Fra queste, per esempio, la possibilità di scoprire autori e registi emergenti, come è già successo anche in America e nel Regno Unito. D’altro canto, la serialità comporta anche delle problematiche, come quella del suo disegno complessivo, che spesso è un suo grande limite. Di frequente i registi investono sulla prima stagione, ma poi aspettano di vedere l’accoglienza del pubblico prima di proseguire il progetto. Questo è molto limitante dal punto di vista della narrazione. Credo infatti che una responsabilità della grande narrazione sia proprio quella di avere un quadro complessivo solido. Shakespeare, come dicevamo poco fa, questo non lo dimentica.

Nonostante tu sia così propositivo verso queste nuove forme di narrazione, credi che per il teatro possano essere una nuova minaccia, come un tempo lo era stato il cinema?

No, non più, sicuramente non come negli anni ’50 fu il cinema. Possiamo dire che si tratta di una minaccia superata. Io poi sono molto radicale: penso che il teatro sia il futuro, l’evento live è il futuro. Infatti, in contrasto con la direzione sempre più digitale e tecnologica verso cui va il mondo e con altri aspetti di sviluppo della socialità virtuale, trovo che il teatro riaffermi il bisogno dell’accadimento live. Il bello degli spettacoli sta proprio nel coinvolgimento delle persone in luoghi aggregativi per guardare e condividere qualcosa mentre accade davanti ai loro occhi.

Ultima curiosità. Drammaturgo preferito? Shakespeare non vale.

Direi che Eduardo De Filippo e Raffaele Viviani sono fra quelli che conosco meglio perché, da napoletano, mi sono formato  su quella tradizione. Non posso poi non citare il più grande drammaturgo italiano che è Pirandello, siamo tutti suoi figli.

 

La redazione ringrazia Lino Musella per la grande gentilezza e disponibilità!

 

di Gaia Lamperti

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