(R)evoluzione dallo spirito pop: parla Stefano Seletti

Seletti

Seletti, un brand internazionale con solide origini italiane

Dai mercatini locali di paesi e città italiane al MoMa di New York: questa è, in breve, la storia di Seletti. Una storia di un’azienda e, prima ancora, di una famiglia. Una storia che vede giustapposti Made in China e Made in Italy, un brand internazionale con solide origini italiane, un direttore creativo, Stefano Seletti, con l’istrionica e visionaria indole di un innovatore. Gilt ha avuto il piacere di conoscerlo e di rivolgergli alcune domande all’insegna della scoperta di un uomo e del suo mondo.

Una carriera personale lunga 30 anni all’interno dell’azienda fondata da tuo padre Romano. Tirando le somme di questo percorso, cosa pensi di aver aggiunto all’azienda rispetto all’impronta della prima generazione?

Ho aggiunto sì, ma ho anche tolto. Mio padre è stato decisamente un pioniere nel varcare i confini della Cina commerciale del 1952, che in pochi al di fuori conoscevano e che aveva non poche insidie. Io cominciai ad accompagnarlo durante i suoi viaggi, all’età di 17 anni. Il mio apporto è stato l’introduzione in azienda della produzione manifatturiera cinese dell’epoca, l’art&crafts. La maggiore disponibilità di prodotti e materie prime di cui l’approccio con la Cina mi ha consentito di disporre, il confronto con persone stimolanti e di altre culture hanno cambiato il mio modo di vedere le cose sia dal punto di vista relazionale sia lavorativo, e ampliato i miei orizzonti e le mie opportunità. Penso, a questo proposito, a mia moglie, brasiliana d’origine, e a Maurizio Cattelan.

In una intervista hai dichiarato che Seletti non è un’azienda di design. In molti ti definiscono tuttavia un designer democratico. Come definiresti l’azienda e come ti definiresti tra designer, artista o creativo?

Mi manca la formazione accademica, ma fortunatamente ho viaggiato molto a fianco di mio padre, che mi ha responsabilizzato affidandomi il settore distribuzione dell’azienda. Questa esperienza è alla base del mio “design democratico” e mi ha insegnato a venire incontro ai gusti più diversi. Intervenire nel processo di produzione, avendo la possibilità di modificare i prodotti nel loro divenire, è stato un grande esercizio di vita e di lavoro.  Non mi sento un artista, mi definirei piuttosto direttore creativo. Paradossalmente, ogni volta che mi sono approcciato al design accademico ho creato prodotti che non hanno avuto grande successo. Molto probabilmente perché non rispecchiano il mio essere e il mio stile.

(R)evoluzione: da dove nasce questa crasi e come riesce a rappresentare l’attitude del brand?

Tutto ha inizio da un esperimento, il mio primo Fuori Salone a Milano. Durante la manifestazione mi trovavo a pranzo in un ristorante in zona Tortona, e lessi su una parete la frase – scritta a bomboletta spray – “Revolution is the only solution”. Decisi di riutilizzarla l’anno successivo su un packaging, e mi si presentò una ragazza polacca che la scrisse con una bomboletta spray sul muro del suo palazzo. La R tra parentesi venne dopo: significa che dobbiamo sempre ricordare di guardare al domani e non limitarci all’oggi. Per me è sempre stato importante creare una rivoluzione in tutti i settori a cui mi sono approcciato: dai miei viaggi di gioventù, all’art de la table. Estetico quotidiano è, ad esempio, una rivoluzione. Non potendo contare sulla storicità secolare dell’azienda, dovevo sfruttare altre armi. Per quanto riguarda l’illuminazione, per esempio, decisi di illuminare in maniera alternativa. È così che nascono le mie scimmie che reggono una lampadina, così come i topolini e l’alfabeto luminoso. Sono riuscito, in questo modo, a inserirmi in un mercato che io stesso mi sono ritagliato. Definisco il mio design un mix di più componenti che lo rendono unico. Direi quasi che i nostri prodotti si amano e si odiano: hanno una forte personalità e possono anche non incontrare i gusti di tutti. Ad oggi uno dei mercati più interessanti per Seletti è quello scandinavo: siamo riusciti a portarvi una – seppur piccola e ancora in via di definizione – rivoluzione rispetto allo stile minimalista dai toni chiari che lo contraddistingue.

In che modo il passato contemporaneo diventa reinterpretazione nei prodotti Seletti?

L’esempio più classico è l’inizio della collaborazione con Toilet Paper. Tutto ebbe inizio da una loro visita allo showroom, durante la quale furono i vecchi pentolini del latte del catalogo di mio padre a colpirli. A quel punto ci chiedemmo: perché non reinventarli e dare loro un’interpretazione diversa?

Sosteneva Confucio: “Esistono tre modi per imparare la saggezza: primo, con la riflessione, che è il metodo più nobile; secondo, con l’imitazione, che è il metodo più facile; terzo, con l’esperienza, che è il metodo più amaro”. Hai mai fortemente imitato qualcuno?

Si, ho copiato tanto (ride). La prima parte della nuova Seletti, quella che conosciamo oggi, è stata frutto di una copiatura. Londra, Colette, 10 Corso Como, il Moma sono soltanto alcuni dei luoghi in cui cercavo ispirazione.

C’è qualcuno che consideri maestro e fonte d’ispirazione per i tuoi progetti?

Maurizio Cattelan è una persona con cui mi confronto quotidianamente sugli aspetti più diversi, a prescindere dal lavoro. Mi ha insegnato tantissimo. Oltre a mio padre chiaramente, che è per me più di un maestro.

Le tue collaborazioni sono avvenute in modalità speculare con aziende democratiche e pop come la tua: da Diesel a Pepsi, da Marcelo Burlon a Gufram e Elena Salmistraro. Radio Deejay e Maurizio Cattelan, che dal produrre pezzi per un target molto alto si è spostato su una linea più pop. Possiamo dire che sono aziende di diversi settori, che hanno lasciato un solco nella storia anche per il loro andare oltre i confini, nel senso di essere stati in più occasioni provocatorie. Chi ha provocato nella moda con look stravaganti, chi nel design, chi con la radio, chi con campagne pubblicitarie. Ma tutto ciò sempre in modo molto creativo. La scelta di collaborare con loro e non con brand di settore più alto è quindi per una coerenza con la tua filosofia o perché non ne hai avuto occasione?

Partiamo dal presupposto che l’azienda è composta attualmente da 27 persone e conta, oltre alla storica sede mantovana, una sede a Shangai e una a Tokyo. Siamo un’azienda famigliare. La scelta delle collaborazioni avviene in maniera naturale e istintiva, spesso nasce da un’amicizia. Questo vale per Cattelan, per Gufram, per Diesel. Mi piace provocare in maniera sana e positiva, e quando riesco a strappare un sorriso ad una persona che acquista un prodotto Seletti capisco di aver raggiunto il mio obiettivo.

Come è nata l’idea della DESIGN PARADE durante la Milano Design Week, che quest’anno giunge alla quarta edizione?

L’idea del Design Pride nasce da chiacchierata con due amici nel locale milanese Carlo e Camilla in Segheria. Il vino ci condusse ad affrontare l’argomento “gay pride” e uno di loro mi propose, scherzosamente, di organizzare la prima design parade. Effettivamente, emergere durante la settimana del Salone del Mobile è faticoso, per cui serve qualcosa di sorprendente. Per me è la giornata più bella dell’anno, è una grandissima gioia vedere una tale partecipazione dei giovani nei confronti del design. È il modo giusto di comunicare ai giovani, quello che si avvale di sensazioni, immagini ed emozioni.

Cosa rappresenta per Seletti il Salone del Mobile di Milano e quali differenze noti, se esistono, rispetto alle altre esibizioni internazionali a cui hai partecipato?

Il plus del Salone del Mobile sono i visitatori, i clienti e i buyer che vengono a Milano proprio durante il Salone: la loro presenza rende questo un evento di fondamentale importanza. Consentimi una nota polemica: non ci è consentito vivere il Salone da protagonisti, essendo confinati in posizioni poco favorevoli, cosa che invece ci è consentita a Parigi. Il Salone è per me un amore e odio; vorrei vedermi riconosciuti i miei meriti.

Se penso a Seletti penso a contaminazione: come scegli i tuoi designer e che indicazioni ricevono? Lasci loro carta bianca?

Solitamente non li scelgo, tutto avviene in modo molto naturale. Ho la fortuna di ricevere molte proposte da parte di designer. Nel prendere in considerazione i progetti, cerco sempre di essere sereno e di valutarli con occhio critico e di dare a tutti un feedback. La mia energia viene quasi sempre totalmente assorbita dalle collaborazioni in corso, quindi ho poca possibilità di prendere in considerazione altri progetti.

Qual è ad oggi il pezzo di Seletti più venduto e secondo te perché?

L’illuminazione è ad oggi il settore che è più di tendenza. In termini di fatturato l’articolo più venduto è la scimmia, in termini numerici il topolino.

Quale consiglio daresti ai giovani aspiranti designer di oggi?

Penso che tutto ciò che si legge nei libri o che ti viene insegnato non appartiene più al nuovo, ma è già diventato vecchio. Credo che occorra ragionare su pensieri che ancora non siano stati scritti, sul passato per poter guardare al futuro. Consiglierei di prendere spunto per poi reinventare.

Ringraziamo Stefano Seletti per la gentilezza e la disponibilità.

 

di Sara Baschirotto

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