L’intervista a Patrick Ithier, co-fondatore del brand calzaturiero ASH

Il brand calzaturiero ASH è simbolo ed espressione di tradizione e qualità dal sapore tipicamente italiano. Abbiamo avuto il piacere di intervistare e scoprire qualcosa in più sul mondo del suo co-fondatore, Patrick Ithier. Buona lettura!

ASH rappresenta il punto d’incontro tra eleganza e heritage. Settembre 2017 vede lo sposalizio del marchio con lo spirito fantasioso e brioso di un artista polacco.

Credo che ASH sia un brand che troviamo nel mondo, in generale. Filip è un artista polacco ma vive a New York e anche in Francia, un cosmopolita. È stato facile incontrarsi, scambiare idee e creare questa collaborazione. Facile perchè ci siamo conosciuti a New York, grazie ad un amico comune. Per lui, come artista grafico che ha lavorato essenzialmente sempre sul piatto, la difficoltà è stata lavorare in 3d sulla scarpa. Io ho detto “non c’è problema”, e gli ho dato tutte le informazioni per creare un determinato ambiente grafico, la sua specialità, su un prodotto tecnico che è invece la calzatura. Da New York abbiamo organizzato un primo incontro a Parigi e successivamente diversi altri. Filip è una persona facile, alla mano, normale. Si parlava di come realizzare questo disegno grafico sulla scarpa, preferibilmente sportiva. A New York aveva scelto due prodotti iconic dalla nostra collezione, e ha lavorato, di lì in poi, per arrivare poi oggi a questo risultato.

Quali sono gli elementi della sua produzione artistica che l’hanno spinta ad associare il genio creativo di Filip Pagowski ad alcuni dei modelli più amati e venduti del  brand?

Penso che la sneaker rappresenti il concetto di freedom. Come prodotto, credo sia molto interessante e presente da lavorare, è easy. Per Pagowski, davvero importante è l’idea di libertà, e quindi siamo arrivati a concretizzare questo concetto in un prodotto.  È stato molto naturale, molto facile.

Quali sono stati gli input creativi che ASH ha fornito all’artista come base per la sue reinterpretazioni grafiche Flame e Tweed?

In termini stilistici nessuno, totale libertà. Gli abbiamo dato alcuni dettagli tecnici da rispettare ma anche lì, entrambi conosciamo bene questo mestiere e per questo abbiamo solo cercato di capire come adattare il suo stile alle nostre scarpe. C’è stata fiducia, è stato semplice, forse un po’ lungo, perchè ne abbiamo parlato a ottobre dell’anno scorso e abbiamo iniziato a lavorare a dicembre per arrivare a giugno/luglio con il prodotto in mano. La scarpa, la sneaker, tecnicamente non è facile da lavorare; per noi di ASH sì, perchè la conosciamo bene; a livello tecnico ci sono tante tante operazioni da adattare ad ogni dettaglio della produzione.

ASH disegna, produce e commercializza tutte le linee di prodotti attraverso un esteso network di oltre 600 punti vendita e 200 negozi monomarca. Un mercato vario, eterogeneo e competitivo. Come la collaborazione con l’artista incontra le esigenze del panorama internazionale contemporaneo? Perché questa Capsule Collection celebra la contemporaneità del brand ASH nel mondo?

Io penso che la propensione di un brand come il nostro, che ha già un po’ questa apertura di design, verso il mondo dello sport – parliamo di sneakers – e una mentalità che tende, ancora una volta, alla libertà, abbia portato a questa collaborazione. Pagowski nel suo lavoro non ha creato uno stile “a parte”, non era questo il suo interesse, bensì ha realizzato un prodotto artistico che le persone potessero indossare, dal quale si creasse un dialogo, uno scambio.

Perché la scelta del salotto-giardino di 10 Corso Como come perfetta cornice per il lancio della collaborazione? Quale il punto d’incontro tra brand, individualità artistica e location?

Perché no? Penso che Cso. Como rappresenti un ambiente molto grafico, che corrisponde parecchio allo spirito di Filip. Credo sia stato la scelta migliore per presentare e lanciare il prodotto.

Un grazie speciale a Paul Ithier per la sua professionalità e disponibilità!

ll video dell’intervista a questo link https://youtu.be/85_2Xy5DbCM

di Francesca Favero

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