La “Love Therapy” di Elio Fiorucci

 

La prima impressione che si ha trovandosi davanti a Elio Fiorucci è quella di parlare con una persona innamorata della vita. Si ha la sensazione di guardare il mondo in modo più leggero, più pulito. D’altra parte un uomo capace di inventare e interpretare una diversa modalità dell’essere moda in Italia e nel mondo, qualcosa di speciale deve averlo.

Elio Fiorucci è funky. Funky vuol dire istintivo, stravagante, diverso, imprevedibile, significa magari andare controcorrente, ma essere sempre presenti a se stessi e al proprio spirito. Sentimenti e fantasia sono il terreno di Fiorucci da sempre. Per lui moda è sempre stata stile. Stile di strada, stile di vita. Lo stilista esprime l’ottimismo di un “penso positivo”. È innamorato dei viaggi, degli animali, dell’arte, della natura e di tutto ciò che lo circonda. Un uomo che ha cavalcato l’onda di più di quaranta anni di moda, arte, design e spettacolo, ma capace di restare ancora incantato da un fiore che sboccia o dalla varietà dei pesci del mare. L’uomo capace di grandi innovazioni convive con l’uomo che ha capito quanto conta essere in armonia con ciò che lo circonda, partendo dalle cose e dai gesti più semplici: annaffiare una pianta o dar da mangiare ad un animale.

Non capita tutti i giorni di trovarsi di fronte ad un artista, imprenditore, comunicatore che ha avuto amicizie con personalità come Andy Warhol, Keith Haring e Basquiat. E non capita neanche a tutti di riuscire a vendere più figurine del Milan. Ma è chiaro che Elio Fiorucci non è “tutti”. E infatti con l’edizione delle figurine Panini firmate Fiorucci ha raggiunto un successo straordinario, riuscendo a stupire lo stesso Franco Panini, amico e imprenditore, per i 105 milioni di bustine vendute.

 

Siete pronti ad entrare nella Fiorucci-Land?
Ecco l’ intervista che ha il potere di una “therapy”. Di una Love Therapy, per l’esattezza.

 

27 maggio 1967: questa data le ricorda qualcosa?
Certo! Questa data ha segnato l’inizio della mia carriera con l’apertura del negozio in San Babila. Il primo negozio, disegnato da Amalia del Ponte, era magico; era una vera novità per l’epoca. Tutti i negozi a quel tempo si chiamavano “Principe di Galles”, “Duca d’Este”, ed erano arredati con finti tappeti persiani e finti lampadari di Boemia. Io scelsi di fare un negozio vero: una scatola laccata di bianco, con luci al quarzo iodio e con un impianto per musica da discoteca, che dava voce ai primi dischi dei Beatles e dei Rolling Stones che portavo da Londra. Ricordo come fosse ieri lo stupore della gente che entrando, di fronte alla scala e alle ragazze in minigonna, restava a bocca aperta. La sera dell’inaugurazione, poi, arrivò Adriano Celentano su una Cadillac rosa: era con tutto il suo “clan” e sembrava di vedere un film degli anni ’50.
Mi sento di dire che quella data rappresenta “l’inizio” di Fiorucci, per me una cosa meravigliosa.

A proposito di Londra, i primi viaggi del 1965 sembrano voler inseguire una passione, catturare novità…nacque quindi un vero e proprio rapporto artistico tra lei e la città del Tamigi?
Sì, si instaurò da subito un rapporto fruttuoso tra me e quella splendida città. Ero affascinato dai colori sgargianti dello street style, dalle mini gonne, da quei look quasi ridicoli, che non cercavano più l’eleganza a tutti i costi. Poi è stato Biba, un negozio incredibile, che mi ha ispirato più di ogni altra cosa. Era grande, enorme, pieno di vestiti a basso prezzo. Vedevo tutte le ragazze prendere bracciate di vestiti ed andare nel camerino comune a provare e a cambiarsi. Era un’atmosfera unica, provavano tutte insieme mentre, fuori dal negozio, c’erano seduti su una fila di sedie tutti gli uomini in attesa.

L’atteggiamento dimostrato durante i suoi viaggi fa percepire il suo spirito da “collezionista,” o ancor meglio da “cacciatore” al punto da poterla definire come un “cool hunter” ante litteram. È d’accordo?
Sì, credo sia possibile un legame con quella che oggi è una professione riconosciuta nel campo della moda, ma per me era tutto più naturale, più inconsapevole. Ero mosso da una curiosità costante, perciò amavo cercare, osservare e guardare “oltre” e trovare quel qualcosa più vicino al mio sentire e ai criteri della moda corrente. Al mondo c’è sempre qualcuno che fa qualcosa di interessante per cui assoldai dei ragazzi che facevano il giro del mondo, li pagavo per viaggiare. Cina, Tokyo, India, New York e San Francisco città molto avanti, vivaci e giovani. Al ritorno dei viaggi c’era un pieno di idee e nuove conoscenze. E’ anche così che Fiorucci ha iniziato ad essere conosciuta, la gente veniva a trovarci e io andavo a trovare loro.

Lei è stato uno dei primi ad andare oltreoceano, aprendo un flagship store presto divenuto luogo cult di New York. Quale è stato il segreto di tanto successo perfino in una città già avanti come la Grande Mela?
Il segreto si chiama “Andy Warhol”! Arrivò, vide il negozio e una volta tornato a casa scrisse sul suo diario: “Sono stato al negozio Fiorucci, mi è piaciuto tutto! È tutto nuovo, tutto colorato e amo tutta quella plastica, devo tornarci!”. Lui s’innamorò un po’ di me come persona, perché forse pazzo come sono mi vedeva simile a lui per certi versi.

Un’amicizia tra due grandi personalità: dovrà averne ricordi che a noi “comuni mortali” non sarebbero neanche immaginabili…
Certamente. Andy era una persona di un intelligenza rara, non parlava molto, ma registrava tutto, conversazioni, suoni e parole. Ricordo che una volta parlando con lui di New York, gli dissi che mi piaceva molto, ma che comunque per un ragazzo come me che veniva dalla campagna, mancava la natura che amo da sempre. Lui dopo due mesi mi invitò a casa sua. Viveva con Bob Colacello, il più famoso antiquario d’America a quel tempo, per cui in casa non c’erano i quadri di Andy, ma quelli dell’800 inglesi, con mucche, capre e soggetti campestri. È stato bello perché, senza dirmi nulla, mi ha fatto arrivare il suo affetto, facendomi sentire a casa.

Elio Fiorucci e la pop art, un legame profondo. I colori fluo, brillanti e allegri sono un tratto distintivo dello stile Fiorucci. Come è riuscito a creare quest’universo “a colori” così innovativo?
L’innovazione in effetti era proprio che usavamo colori che allora non si utilizzavano sui vestiti neanche in America, ma solo nell’arte, nei quadri di Warhol appunto. Infatti l’ispirazione la devo ad una conversazione con Andy. Guardando le sue opere gli chiesi come faceva a farle apparire così moderne e lui mi rispose che era perché prendeva i colori dalle luci al neon di New York. Ed è così che ha fatto la mitologia della contemporaneità, cioè la pop art. E senza saperlo lo facevo anche io, colorando con toni brillanti e fluo gli abiti. Ora la Pantone ha fatto una collezione “Neon” in omaggio ed ispirata ad Andy Warhol.

Innovatore non solo con il colore, ma anche con i materiali. Dopo la plastica, la geniale intuizione di inserire la lycra nel denim. A lei dobbiamo la nascita del primo jeans stretch!
A me piace dire di aver creato il primo jeans fashion. La cosa è nata quando ero ad Ibiza negli anni ’60. Vedevo ragazze hippies con il 501, che lo immergevano a mare e lo strizzavano per farlo apparire aderente sul sedere, così sono tornato a casa e ho pensato a come creare un jeans che seguisse le forme del corpo femminile. Un giorno avevo un rotolo di denim sul tavolo e venne da me un signore che era modellista di Valentino; esausto di fare il pendolare da Milano a Roma, quartier generale di Valentino, mi chiese di assumerlo. Così gli lanciai una sfida: se fosse riuscito a creare un jeans con la lycra come volevo io, l’avrei assunto. La sfida la vinse lui.

Sorge spontaneo chiederle come ha fatto a entrare così in sintonia con la figura della donna al punto da avere un’intuizione vincente come questa…
Perché forse c’è un po’ di donna anche dentro di me!

Tornando alla Pop Art, che significa proprio “arte per tutti”, viene subito in menta la joint venture con Ovviesse ed altri marchi low cost. Come mai questa idea?
Ho pensato di dover creare una linea più a buon mercato, anche per adattarmi alla situazione economica di questo periodo. Per la linea creata con Ovviesse, devo molto a Stefano Beraldo. È stato lui a chiedermi di disegnare una linea per il suo marchio, così da alzarne il livello, e infatti Ovviesse è cresciuto molto, anche per la linea “Love Therapy”.

In un momento storico come questo, in cui crisi e globalizzazione sono ostacoli importanti per la moda, cosa sente uno stilista del suo calibro? Si può sognare ancora un made in Italy al 100%?
L’Italia ha un potenziale mostruoso che non sa esprimere. Vai in tutte le strade del mondo e ci sono negozi italiani, i marchi di lusso negli shopping center sono italiani. C’è energia tutta italiana da vendere, c’è la capacità di fare del buon design, di fare arte bene, ma per qualche motivo si spreca. C’è molta artigianalità sprecata…ma io credo nel made in Italy al 100%, nel mondo ci credono. Forse solo gli italiani no.

Lei prima di essere artista, imprenditore e designer è soprattutto un gran comunicatore. Quanto crede sia importante oggi nel settore moda la comunicazione?
La comunicazione è pubblicità, per cui è fondamentale. Io ho lavorato tanti anni con Oliviero Toscani e ho sempre trovato il suo modo di comunicare attraverso le immagini straordinario. Lo presentai io a Benetton, infatti. Una volta in treno sulle Ande una turista, sentendo che ero italiano, mi chiese se conoscevo Toscani. Questa è comunicazione, arrivare fino alle Ande. Quando si fanno cose belle la comunicazione è micidiale. Così come gli angioletti Fiorucci sono arrivati ad essere riconoscibili in tutto il mondo.

L’ultima novità è la linea di prodotti beauty creata per La Gardenia. Quali progetti ha per il futuro?
Non saprei, so solo che qualsiasi cosa mi chiedono di disegnare lo faccio. Ho l’istinto del disegno semplice, che non è facile da trovare oggi, perché tutti sono alla ricerca dell’originalità a tutti i costi, dell’unicità. Invece a me piace lo stile che cambia, non sono capace di fermarmi sulle cose, tutto quello che guardo mi piace, non riesco ad affezionarmi alle cose, sono sempre attratto da tutto, mi piace tutto. Sarò pazzo io, forse.

Cosa mi piace? Non lo so, tutto…è come se la vita fosse un gioco, io ho bisogno che la vita sia un gioco perché se la prendi per certi lati sa essere terribile…forse mi fa paura per questo.

Lei è testimone degli anni d’oro della moda. Cosa vorrebbe che ci fosse oggi e che invece manca?
Secondo me va bene tutto, non leverei nulla. Forse solo il lato snob della moda, quello che la mette un po’ su un piedistallo come una regina superba. Per il resto trovo che vada bene tutto. In Italia ci sono i migliori artigiani che cuciono le scarpe più belle. Conosco Manolo Blahnik, è un amico e tutte le sue scarpe vengono fatte a Vigevano. Cosa vogliamo di più?!

 

(di Margherita Esposito)

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