Il design culturale di Karim Rashid

Un uragano che squassa l’America. Una New York City paralizzata e in balia di Sandy. Allagamenti e traffico in tilt. Vittime e distruzione. Eppure lui, Karim Rashid, un designer, un genio, ha un impegno, un appuntamento al quale non si sente di mancare. Un’intervista con l’Italia. Con GiltMagazine. Ma internet non va, e si fa tardi… E così, appena tutto torna a un’apparente normalità, ecco la sua mail: ci sono le sue scuse per aver tardato, per non aver rispettato l’impegno preso. La grandezza di un uomo si riconosce anche in questa grande umiltà, in questo profondo rispetto per gli altri. E noi, lasciatecelo dire, siamo davvero orgogliosi di averlo conosciuto. Chapeu, Karim.

Da cosa trae inspirazione per realizzare le sue creazioni?
Fabbriche, tecnologie, materiali, macchine, persone, comportamenti, movimenti artistici, la filosofia e tutte le discipline artistiche. Inoltre, sono i viaggi che mi hanno veramente inspirato. Il miglior modo per vedere e conoscere ogni posto è lavorare e apprendere la cultura locale. In qualsiasi posto io vada assorbo informazioni come una spugna e memorizzo tutto, perché il mio è un design culturale. Cerco di osservare e memorizzare il campo, in seguito leggo la letteratura del posto, provo a vedere i film, assaporo, odoro, tasto e ascolto ogni cosa. Ogni luogo è fonte di ispirazione; amo soprattutto trarre idee da posti inusuali, dagli aeroporti ai vicoli, dai taxi di Londra ai bagni di Parigi, dalle palestre di Hong Kong ai cinema di Milano, dal cibo in Qatar alle baracche in Sud Africa. Tutto ciò che è nuovo per i miei sensi, inusuale, mi ispira. La bellezza è in ogni cosa che vedi. Gli spunti si trovano, basta essere in grado di abbracciarli.

Ha una musa ispiratrice?

No, ma mi piacerebbe averla.

Quanto l’ha cambiata la notorietà?
Io non penso che ciò mi abbia cambiato. Il successo mi ha dato solo l’opportunità di aver fiducia nel mio istinto e di non preoccuparmi dei piccoli fallimenti.

Il suo lavoro è nelle collezioni permanenti in quattordici musei in tutto il mondo: un successo planetario. Ma quando si è accorto di aver raggiunto tanto successo?
Io non reputo ciò un successo. Per me il successo è dato dai consumatori che usano e amano i miei prodotti, i miei spazi. Credo che sia questo ciò che mi spinge a fare di più, ad affrontare più sfide e a migliorare del tutto il mio lavoro. Non mi reputo ancora del tutto soddisfatto.

Lei è nato al Cairo da padre egiziano e da una madre inglese, è cresciuto in Canada e adesso vive a New York City. Quale tra questi Paesi considera la sua casa?
Sono nato al Cairo, ma mi ci sono voluti 44 anni per ritornare lì dopo che io e la mia famiglia siamo andati via quando avevo un anno. Sono arrivato lì e ho sentito immediatamente la sua esuberanza e il suo aspetto galante scorrere nelle mie vene. È un posto eccezionalmente esotico, dove le origini della civiltà umana sono onnipresenti. È stato emozionante trovarsi in questa città così caotica ma sento ancora che la mia patria è il mondo intero. Mi sento ansioso quando non viaggio. Ho bisogno di attraversare il mondo e vedere la sua energia multiculturale.

Nelle sue creazioni quanto influiscono le sue origini arabe e quanto la sua formazione occidentale?
Io sono per un quarto irlandese, per un quarto inglese, per un quarto algerino e per un quarto egiziano. Parlo diverse lingue, e ora, nel mio tempo libero, sto provando a imparare il giapponese, ma ahimè non ho tempo libero… Il mio contributo al design deriva dal lato americano per l’informalità e l’espressività, da quello Europeo per l’essere romantico e poetico. La mia parte mediorientale spicca perché passionale e artistica, mentre il lato britannico si ritrova nel mio essere pragmatico e affarista.

Qual è la performance di cui è più orgoglioso?
Mi fanno spesso questa domanda. Io tendo ad essere molto critico nel mio lavoro, e ad oggi, a distanza di 10/15 anni, inizio ad apprezzarli molto. Dei miei recenti lavori mi reputo molto entusiasta del Nhow Hotel di Berlino.

Quali sono i materiali con cui preferisce lavorare?
Sono conosciuto come il “Principe della plastica”. Uso questo materiale nella maggior parte dei miei progetti perché ha proprietà meravigliose: è malleabile, durevole e abbastanza confortevole. Inoltre, permette di creare oggetti dal design democratico ed economico. Posso creare forme sensuali e organiche che non sono mai esistite nella storia. L’utilizzo della plastica permette ai miei oggetti di essere più accessibili nei negozi. Comunque lavoro con tutti i materiali, dal vetro al legno, alla pietra e alle leghe. Ora mi interesso anche ai polimeri biodegradabili o polimeri ricavati da risorse rinnovabili come per esempio il polietilene, che è ricavato dalla canna da zucchero.

Che progetti ha in corso e per il futuro?
La prima cosa che dovrò fare sarà riaprire il mio ufficio di New York City, danneggiato dopo l’uragano Sandy. Per il futuro ci saranno i miei primi progetti d’architettura, ossia degli appartamenti in NYC e a Toronto, Tel Aviv, Miami e San Pietroburgo. Inoltre, sto lavorando per degli Hotel in Russia, Singapore, Israele, e Germania. Mi sto anche occupando del packaging di cibi, liquori, bevande , del car interior, della creazione di bagagli e di tovaglie, dell’installazione per il salone del mobile di Milano 2013, del lighting design, di mobili e altro ancora. Ho più di 65 progetti in corso e amo ognuno di questi. Per il futuro spero di migliorare nel campo dell’edilizia, di avere una linea di moda e di realizzare tutto ciò che può essere utile all’uomo.

Come si definisce in una parola?
Modellatore Culturale (ok, sono due parole, non sarò mai un bravo editore). Ndr. Ride.

(di Paola Vaira)

 

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